Ciao, Giuseppina.

Se mi permetti, ti do del tu. Per diversi motivi: perché siamo entrambe donne, siamo più o meno coetanee, e siamo tutte e due (tu più, io meno) scrittrici. Scrittrici di gialli, e di donne. Donne coraggiose, che possono esitare, ma non si arrendono. 

Ho avuto il piacere di conoscerti attraverso Il sanguinaccio dell’Immacolata (recensione), ed è stata una piacevole scoperta. 

Parliamo delle tue donne. In questo romanzo sono tutte, anche quelle che sembrano più fragili come la vecchia zà Sarina, estremamente forti. È un tuo modo di sentire, o veramente le donne di Sicilia hanno una marcia in più, nel bene o nel male?

Non penso che le donne di Sicilia siano particolarmente forti, credo che lo siano le donne in genere. Sono fatte come canne di bambù, flessibili e adattabili alle circostanze esterne; per usare una parola più moderna, sono resilienti. Certo in Sicilia le donne hanno dovuto sopportare un patriarcato particolarmente ottuso e prepotente, perciò fin da bambine hanno imparato l’arte della sopravvivenza. Sono piante del deserto, che in assenza di acqua si fanno bastare la rugiada, e tuttavia germinano e fioriscono.

Penso in particolare alle donne di mafia che, pur avendo un ruolo apparentemente secondario come l’imprinting dei figli, in caso di necessità sono pronte a prendere il comando. Nel Sanguinaccio tu invece fai sfruttare a Marò il vantaggio della scarsa considerazione in cui il boss tiene le donne. È un escamotage di fantasia, oppure c’è ancora quest’ambiguità nel rapporto donne/mafia, a tuo parere?

Non sono un’esperta mafiologa, ma la letteratura, il cinema, ci raccontano di donne sottomesse, capaci di sostenere il boss in ogni decisione, anche a costo di far soffrire i figli. La mafia è l’espressione più violenta del patriarcato, perciò penso che le donne della vecchia mafia, per intenderci quella prima delle stragi, non contassero nulla. La loro storia è fatta di mogli che hanno seguito il marito boss nella latitanza, condannando i figli a un’esistenza da fantasmi; qualcuna si è suicidata, trovando solo nella morte la libertà. Poi, anche loro si sono emancipate e sono diventate corrieri insospettabili, messaggere di ordini; finché hanno ottenuto una finta parità, uniformandosi a uno schema maschile crudele e senza rispetto per la vita. 

Ho apprezzato molto il realismo con cui tratteggi la vicequestora Pajno: donna in carriera, ma comunque donna che va in crisi per i chili di troppo, che si consola con gli arancini, pardon, le arancine (per voi siciliani sono femmine, ma per noi campani sono rigorosamente maschi), che ama un uomo forse sbagliato… mi chiedevo se è esclusivamente frutto della tua immaginazione o se c’è un modello a cui ti sei ispirata.

Di solito ogni personaggio è frutto del mio sentire. Chi è quella donna che in particolari fasi della vita non utilizza il cibo in modo distorto? Io ne conosco tante, me compresa.

Della tua scrittura mi hanno colpita diverse cose. Tra le altre, anche la sensualità che metti nella cucina. Quando Marò impasta, sembra quasi che faccia l’amore. A te piace cucinare? Dall’amore che viene fuori da alcune descrizioni, io penso di sì. 

Mi piace cucinare, ma non sono una brava cuoca. Amo spignattare ma detesto la quotidianità. Cucino per chi amo e amo chi cucina per me. Il cibo è solo un modo per esprimersi quando mancano le parole o quando delle parole si vuol fare a meno. Una sorta di emoji profumata e saporita.

Ho letto che il tuo prossimo romanzo percorrerà una strada diversa. Ci puoi accennare qualcosa?

Una strada ferrata, ma non vorrei dire altro.

Concludo con un saluto e una promessa: ho esordito dicendo che non ti conoscevo, ma porrò rimedio alla mia lacuna, cominciando dalla prima indagine di Marò Pajno. A presto rileggerti.

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