Abbiamo avuto il piacere di conoscere e recensire Luca Steffenoni con il suo giallo/saggio “Il caso Tortora” ed. Chiarelettere (vedi recensione). Lo abbiamo apprezzato con “Food & Crime” ed. Runa Editore (recensione). Paola Rocco lo ha intervistato per noi.

Luca, il tuo ultimo libro, Food & Crime, racconta in uno stile volutamente leggero delitti che tuttavia a volte appaiono particolarmente efferati, soprattutto perché gli assassini sembrano aver premeditato l’occultamento delle vittime in cibi e manicaretti vari. Tra i molti casi raccolti ce n’è qualcuno che ti ha colpito in modo particolare?

Ho sempre pensato che per raccontare bene il delitto sia necessario superare con decisione l’aspetto morboso e la fredda cronaca. Perché questo avvenga devo selezionare con cura storie che abbiano una “trama” e un tessuto narrativo che vada oltre al delitto nudo e crudo. Forse è necessaria una premessa: il delitto, per quanto possa essere efferato o misterioso, ha sempre un gusto piuttosto insipido. Gli assassini, oggi come un tempo, seguono moventi banali, inseguono sceneggiature ascrivibili al classico binomio soldi e sesso, al quale possiamo unicamente aggiungere qualche devianza patologica o psichiatrica. Visti da vicino, specie se l’osservatore è un criminologo, i delitti sono molto meno interessanti di quanto possano apparire da lontano. Di assassini particolarmente intelligenti o almeno fantasiosi ne ho visti abbastanza pochi, di piani criminali geniali, ancora meno. La realtà non è un giallo e nemmeno un noir. Che senso ha, dunque, raccontare il delitto?

Il senso va cercato nel “contorno”, nella cornice nella quale si muovono vittime e carnefici. Guardando dal buco della serratura della storia possiamo vedere in faccia l’assassino o entrare nella sua mente.Tornando, dunque, alla tua domanda, una vicenda mi colpisce quando si consuma in ambienti e situazioni particolari, quando è l’istantanea di un periodo storico, lo sberleffo della follia su una foto in bianco e nero. I delitti “gastronomici” che racconto in Food & Crime hanno tutti questa caratteristica: sono “cinematografici” e iconografici. Ci restituiscono le immagini di un’epoca. Prendiamo per esempio il “delitto del bitter”, un giallo estivo che si consuma negli anni del boom economico, della seicento, del twist attorno a un mangiadischi. Dietro quel bitter avvelenato c’è un intero popolo, c’è la banalità del male e l’ingenuità della provincia italiana, i sogni di gloria e l’arricchimento facile, convivono l’immaginario da rotocalco e la triste realtà piccolo borghese. C’è tutto l’Italian Sound della commedia all’italiana. Queste sono le storie che mi stupiscono, mi affascinano e che amo raccontare.

Come nasce l’idea di approfondire il rapporto tra cibo e delitto?

Negli ultimi anni il cibo si è inserito autorevolmente nella vita di noi italiani. Il Food tracima dalle trasmissioni tv, dai locali e ristoranti che, specie a Milano dove vivo, stanno sostituendo ogni altro negozio, dalle fiere specializzate, dai festival eno-gastronomici, dalla letteratura di genere e dalla cinematografia. Non volevo rovinare la festa con un abbinamento indigesto, ma era inevitabile che due temi così intrinsecamente legati tra loro come la vita lo è con la morte, dovessero prima o poi incontrarsi. Si trattava solo di attendere che i lettori fossero pronti e oggi indubbiamente lo sono. Come amava ricordare lo chef e giallista Anthony Bourdain, “l’arte culinaria è una sorta di assassinio”. E’ proprio vero. Anche se facciamo di tutto per dimenticarlo, per mangiare dobbiamo uccidere o meglio dobbiamo farlo fare a altri, attendendo ciò di cui abbiamo bisogno in forma di manicaretto o di triste confezione del supermercato. Siamo tutti dei mandanti e non c’è veganesimo che tenga, uccidiamo anche se viviamo di carote e rucola. Inutile girarci attorno, cibo e delitto vanno a braccetto. Nella mente perversa di qualche assassino, ma anche nel nostro vivere e sopravvivere quotidiano.

Food & Crime copre un arco temporale piuttosto esteso, raccontando circa due secoli di storia d’Italia e del mondo dal punto di vista di quest’insolito connubio. Com’è cambiato, se è cambiato, nel tempo il profilo di questo tipo di crimine e di criminali? Dalle notti solitarie nella locanda dei Martin e dai tranquilli pomeriggi nella villetta di Landru sono passati molti anni…

Indubbiamente il Killer Profile, come diremmo oggi, del crimine gastronomico è cambiato moltissimo. Gli esempi sono tanti. A cavallo tra fine ottocento e primi del novecento si è vissuto il grande periodo degli occultatori. Omicidi caratterizzati dalla volontà di nascondere il cadavere delle vittime più che mangiarselo o darlo in pasto a altri. Ovvio che le grandi cucine e i forni a legna delle case isolate rispondessero a questa esigenza, assolvendo una funzione pratica ma anche psicologica perché la distruzione del cadavere della vittima è anche un tentativo di rimozione dell’atto immorale. Cambiate le cucine e la tipologia di appartamenti, specie in città, sono cambiate anche le modalità assassine. L’istinto cannibale, viceversa, cova sotto le ceneri di ogni periodo storico e riemerge dai meandri della follia umana quando meno te l’aspetti. Ci sono stati casi nei periodi bellici, così come in tempi attuali, a ogni latitudine e in ogni contesto sociale. Nelle favelas di Rio come nel centro della ricca e moderna Parigi, nella Berlino degli anni ‘30 come nella Tokyo post-moderna del ventunesimo secolo. Non dimentichiamo poi la modifica dei crimini legati ai luoghi del cibo e del bere. Pensiamo a come è cambiato il banchetto mafioso dall’epoca del Padrino ai giorni nostri. L’omicidio del rivale su una tavola imbandita è stato per decenni un rito sanguinario che assolveva compiti precisi. Nei ristoranti alla moda si sono consumati una miriade di regolamenti di conti, in un contesto simbolico saccheggiato dai giallisti e da Hollywood. Oggi la mafia ha rinunciato a qualsiasi velleità romantica. La sua azione è pura e disgustosa macelleria. E’ quella dei locali pacchiani di Gomorra, della strage della pizzeria di Duisburg in Germania, non certo quella di Al Capone o di Lucky Luciano.

Tornando ai singoli omicidi potremmo dire che in questi tempi un po’ bacati l’omicidio in cucina è diventato più “acido”, è sempre meno premeditato e più follemente istintivo. Molto più difficile da prevedere o semplicemente capire.

Il tuo libro presenta, tra gli altri, anche un avvincente excursus tra i grandi detective della letteratura, esaminati, naturalmente, dal punto di vista dei gusti a tavola: dalle aringhe e noccioline mangiucchiate da Sherlock Holmes al roast beef in salsa di ribes snobisticamente prediletto da Nero Wolfe. Da quale dei personaggi che hanno reso grande il genere giallo ti piacerebbe essere invitato a cena?

Sono piuttosto tradizionalista, difficile portarmi in giro per il mondo a sperimentare abbinamenti troppo arditi. L’occasione giusta la troverei in Italia, in Sicilia per essere più preciso, nell’immaginario paesino di Vigata, bussando alla porta di Montalbano, trovando, con un po’ di fortuna, la disponibilità della fida Adelina a cucinare qualche cosa di buono. Sono sicuro che al tavolo del commissario mi troverei bene e ne conserverei un ricordo pari a quello indelebile di una cena palermitana in compagnia del caro Camilleri. Una serata tra pesce gustoso, buon vino dell’entroterra siculo e una brillante conversazione nella quale ho cercato di “rubare”, tra una portata e l’altra, qualche segreto letterario del grande autore.

Grazie a Luca Steffenoni.

 

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