Continuano le nostre interviste ai più grandi autori del momento in collaborazione con il gruppo facebook: I Thriller di Edvige. Oggi nostro ospite è lo scrittore Martin Rua in tutte le librerie con il suo thriller storico “Il cacciatore di tarante” ed. Rizzoli.
Martin Rua è la vera rivelazione nella narrativa giovanile di questo 2020. Ed è vero che ha cominciato a pubblicare dal 2014, affrontando quasi sempre temi esoterici e storici e facendolo con cura e passione, tanto che i suoi romanzi sono un vero viaggio tra misteri e arcani. Ma nel suo ultimo lavoro Il cacciatore di tarante è riuscito a raggiungere una maturità assoluta e a confezionare un giallo in cui i lettori possono trovare suspense e storia risorgimentale, personaggi indovinatissimi e temi attuali come la violenza sulle donne, location dimenticate del sud dell’Italia e stanze segrete di alchimisti. Il tutto mescolato alla perfezione. Per questo non potevano lasciarci sfuggire un suo incontro con cinque attentissimi lettori. Questo è ciò che ci ha raccontato.
SONIA SYSSA SACRATO: Ciao Martin, da un po’ di tempo a questa parte, pare che se un autore non sforna un libro all’anno, meglio se ogni nove mesi, non sia bene, quasi ci fosse la paura di essere dimenticati tra una pubblicazione e l’altra. Questa “filosofia” va in controtendenza rispetto al tuo modo di scrivere che è chiaramente ricercato, non solo per lo stile, ma anche per tutto il bagaglio storico/culturale e artistico che arricchisce la trama, e che è un po’ il tuo “marchio di fabbrica”. La mia domanda è: da dove nasce questa tua passione per la ricerca e l’arricchimento che sono parte fondamentale dei tuoi libri, e se nel “durante” la stesura sentissi la pressione del tempo che scorreva e se ti preoccupasse. (O se semplicemente te ne sei fregato puntando sulla qualità). Ancora complimenti. E grazie a la Bottega del Giallo per questa opportunità.
Ciao, Sonia, Ti ritrovo con piacere, dopo aver chiacchierato durante la nostra diretta. Dunque, inizierei commentando brevemente la tua osservazione – «pare che se un autore non sforna un libro all’anno, meglio se ogni nove mesi, non sia bene, quasi ci fosse la paura di essere dimenticati tra una pubblicazione e l’altra» – dandoti ragione, in tutti i sensi. Cioè, hai ragione, sembra proprio esserci un’urgenza e un timore di scomparire, e questo perché in parte è vero: il mercato editoriale è talmente sommerso di nuove uscite, che se non stai sempre sul carro, scompari davvero. Quindi, un autore che voglia essere sempre più o meno visibile e presente nelle librerie, è quasi costretto a sfornare. Ovviamente, molte volte a detrimento della qualità.
Il mio caso è diverso, per due motivi: 1) se potessi permettermi il lusso di scrivere soltanto, sarei anch’io più prolifico (cercando di gettarmi nella pugna editoriale con più frequenza), ma non posso. Con onestà devo ammettere di aver bisogno di fare anche altro per sbarcare il lunario (come il 99% degli scrittori, del resto); 2) Camilleri diceva che quando scriveva un romanzo di Montalbano poteva farlo in breve tempo, perché il mondo del commissario era già lì, pronto. Lui, Camilleri, doveva solo far muovere i personaggi al suo interno. Quando ho scritto le mie prime due trilogie, un po’ ho avuto questa fortuna, ma fino a un certo punto: i personaggi erano più o meno gli stessi, certo, ma cambiavano caratteristiche nel corso delle storie, e le ambientazioni non erano sempre quelle. Tuttavia, l’urgenza la sentivo: con Newton Compton c’erano ritmi serrati, ma questo mi ha insegnato a essere veloce su certi passaggi. Ad affinare il mio stile, senza perdermi in fronzoli.
Con l’ultimo, Il cacciatore di tarante, ho dovuto creare un mondo del tutto nuovo, in un’epoca da me mai investigata, creando anche dei dialetti convincenti. E per questo ho impiegato più tempo. Dovevo fare un buon lavoro, essendo un banco di prova per il mio nuovo editore, Rizzoli.
Che io ci sia riuscito o meno sono i lettori a doverlo stabilire.
ALESSIA BARBUIO: Buonasera, nel tuo libro c’è storia, conoscenza dei luoghi e fantasia, il tutto mescolato con pennellate sublimi. Ma quale è il fattore storico o geografico che ti fa scatenare il racconto… mi spiego ti attira maggiormente un luogo o un’epoca per iniziare un nuovo libro?
Grazie per quel sublimi prima di tutto, Alessia. In realtà intervengono entrambi gli stimoli, ma forse i luoghi in generale mi hanno ispirato prima e più delle epoche. Anche perché la maggior parte dei miei romanzi è ambientata al presente, con piccole incursioni in epoche passate.
Altre volte, invece, più che questi due elementi sono state storie, studi o anche oggetti a ispirarmi una storia. Per esempio, in I nove custodi del sepolcro, l’ultimo romanzo della Parthenope Trilogy, la storia è ispirata a un docu-fiction (si dice così, credo) sull’ipotetica esistenza di creature simili alle sirene acquatiche delle leggende, ma è balenata nella mia mente anche per il mio interesse a un reperto enigmatico come il meccanismo di AntiCitera, una sorta di calendario astronomico per naviganti realizzato più di duemila anni fa.
Insomma, bisogna essere antenne, per captare le ispirazioni da ogni parte.
TIZIANA LEONE: Chi è il tuo primo lettore, l’unico/a che ha accesso anche alla tua prima bozza?
Ciao, Tiziana. Il mio lettore beta è, ormai da molti anni, la mia compagna, la quale, per inciso, non è neanche italiana. Yuliya è metà russa e metà ucraina, è venuta in Italia otto anni fa (con me… ma è una storia lunga), ha imparato l’italiano così bene da riuscire a spaccare il capello in quattro in ogni testo che legge. È una delle più severe editor che io conosca. Quando le affido una bozza scattano prima di tutto litigi, perché un autore resta comunque un po’ geloso del proprio lavoro e non ama sentirsi dire: «questa cosa non sta in piedi». Poi però, a sangue freddo, analizzo le sue osservazioni. E immancabilmente mi rendo conto che ha ragione.
Se non ci fosse lei, i miei lavori sarebbero senza dubbio più superficiali.
È insopportabile.
La adoro.
CRISTINA MAZZUCCATO: Ciao Martin, Innanzitutto grazie per la tua disponibilità nel partecipare a questo “incontro” virtuale con il gruppo. Io sono proprio nel cuore della lettura de “Il cacciatore di tarante”. Sono di Torino e adoro Napoli, un connubio perfetto per adorare anche questa storia misteriosa. Perché hai scelto queste due realtà così agli opposti l’una dall’altra, specie nell’epoca da te descritta? E, dato che sono una curiosona, Boia Faus, chi ti ha suggerito le espressioni dialettali torinesi che troviamo nel testo? Cosa ti lega a Torino?
Ciao, Cristina. No, grazie a voi per questa opportunità: si scrive (e si pubblica) per questo, per avere un confronto con chi legge le proprie storie.
Per rispondere alla tua domanda: è partito tutto dal desiderio di raccontare una storia che parlasse di tarantismo. Per farlo, mi sono detto, dovevo ambientare il tutto in un’epoca in cui il tarantismo era ancora un sistema simbolico e sociale vivo, e non un fenomeno antropologico morto, relegato solo nei libri. Ho scelto quell’epoca perché non è troppo lontana da noi e perché, pur essendo profondamente diversa, si viveva un contrasto ancora attualissimo per noi: lo scontro nord-sud. Una ferita che non abbiamo ancora sanato, e che anzi è tenuta costantemente aperta dalla scellerata politica con la quale ci tocca avere a che fare al giorno d’oggi.
Per rendere ancora più drammatico il contrasto, ho scelto di utilizzare due personaggi provenienti da mondi diversi e, appunto, nel 1870, ancora in forte conflitto tra di loro: Napoli e Torino. L’ho fatto per dimostrare che, anche se all’epoca c’erano forse più motivi di oggi per alimentarlo, era comunque possibile una pacifica convivenza.
Dovremmo averlo imparato, ormai, ma cadiamo sempre nello stesso errore di punzecchiarci come bambini ignoranti, piuttosto che lavorare a rendere la nostra eredità storico-culturale un bene unitario con il quale vantarci agli occhi del mondo.
Quanto alle altre due domande: ho una cugina che vive a Torino e molti amici, ma ciò che mi lega a essa è il fatto che si tratta di una città molto interessante, bella e suggestiva. Le storie misteriose che la riguardano possono ispirare infiniti romanzi.
Le espressioni in torinese sono state riviste appunto da una delle mie amiche sabaude!
CASSANDRA TIELLE: Come arriva l’idea per un romanzo: all’improvviso quando fai tutt’altro oppure ci lavori piano piano costruendola pezzo dopo pezzo con un meticoloso lavoro di ricerca?
Ciao, Cassandra. Può accadere in tutti e due i modi. A volte è davvero eccitante ricevere quella che potremmo definire l’ispirazione di un momento: capita quando vedi un oggetto, quando assisti a un fenomeno naturale, quando guardi gente per strada, o quando ti viene raccontata una storia. In un attimo visualizzi quello che potrebbe essere lo sviluppo di una bella trama, e quel pensiero, se la trama è convincente, non ti abbandona più.
È quanto accaduto per Il cacciatore di tarante.
Altre volte ho ragionato di più, nel senso che leggendo e studiando, sono andato alla ricerca dello spunto: è capitato così per il secondo libro della Prophetiae Saga, L’enigma del libro dei morti. Cercavo lo spunto leggendo romanzi e saggi, e mi sono imbattuto in L’atlante dei luoghi maledetti di Olivier Le Carrer, raccolta senza infamia e senza lode di luoghi ai quali sono legate storie più o meno oscure. L’occhio s’incagliò sul capitolo dedicato a Montségur, il luogo dove avvenne il massacro finale della crociata contro di Catari.
La storia la conoscevo già, ma in quel momento scattò l’interruttore.
Quello fu solo l’inizio, però. Per lo svolgimento della trama ho dovuto approfondire molte cose, tra le quali la peste, che in quel libro ha un ruolo centrale. Consultai un infettivologo per capirci qualcosa.
Fu molto stimolante.
Grazie a Martin Rua per la sua disponibilità.