di ANTONIA DEL SAMBRO

Il “ragazzo prodigio” del noir italiano è tornato. 

Sempre con Rizzoli e sempre con quella capacità tra il drammatico e l’onirico di raccontare periferie, ragazzi sbagliati, desiderio di rivalsa e sogni a volte troppo grandi per essere contenuti in malinconici quartieri dormitorio. Scano non si nasconde, non bleffa, non indora la pillola ed è sfacciatamente sincero. Di quella sincerità che il Verismo italiano aveva raccontato tanto nel secolo scorso e che sembrava essere stata accantonata nella narrativa del Duemila. Tradizione e innovazione direbbero gli imbonitori televisivi, in realtà, la straordinaria capacità di un giovane scrittore di raccontare il mondo fuori dalle mode narrative del momento senza avere paura anche di “sporcarsi” un po’.

Questa l’intervista concessa da Lorenzo Scano per i lettori de La Bottega. 

Lorenzo, ben ritrovato in libreria. Il tuo nuovo noir ha un leit motiv ben preciso: la resa dei conti non ha scadenza. È con questa spada di Damocle che pende ineluttabile e minacciosa sulla testa dei tuoi protagonisti che affronti un’altra storia di luce e di ombre, di rivalse e di ricadute, di scelte tra il sopravvivere e il morire. Da dove nasce questa storia? Da cosa sei stato ispirato? 

Dall’esigenza di romanzare – forse per esorcizzare – un “trambustoso” periodo della mia vita e della vita di alcuni miei amici molto stretti attraverso cui siamo passati qualche anno fa. Tutti senza lavoro, o senza un lavoro stabile, impegnati o reduci da relazioni amorose fallimentari, passavamo le giornate a ciondolare come cani randagi per strada e nei bar. “Stray”, randagio, me lo sono anche tatuato su un braccio, in onore di quei “bei brutti tempi”. I sogni, comunque, non venivano mai meno nemmeno in quei giorni di buio, e posso dire che ne abbiamo realizzato una buona parte: c’è chi ha comprato casa, chi si è sposato, chi ha fatto un figlio; io mi sono trasferito a Milano e sono al secondo romanzo con Rizzoli… 

Un’altra volta la Cagliari nascosta. Un’altra volta la città sconosciuta ai turisti e nella quale la lotta per la conservazione sembra l’unica occupazione possibile, l’unico lavoro a tempo indeterminato di chi ha la sorte di viverci. Una location che è essa stessa prima attrice di tutta la tua storia. A questo punto sarebbe interessante per i lettori sapere se la Cagliari che tu racconti non ha davvero nessuna speranza di riscatto e affrancamento o parte di quello che narri è solo fiction letteraria.

Cagliari ha un enorme potenziale di affrancamento da quelle dinamiche. Contrariamente a quel che si pensa, non vive di tre mesi di turismo all’anno, ma è una città metropolitana di quasi mezzo milione di abitanti la cui economia principale si fonda sul terziario. Ma quelle strade, quelle scorciatoie, quegli ambienti raccontati nel romanzo, specie per chi cresce nei rioni popolari o nei dormitori della prima cinta suburbana, restano sempre una tentazione fortissima, spesso non per sopperire tanto a difficoltà di natura economica, ma alla noia mortale di una routine tediosa e mortificante. Ed è di ragazzi che iniziano così, a spacciare e a immerdarsi con le persone sbagliate, che scrivo, di quelli che la criminalità da strada non la soffrono, ma la scelgono. 

In qualsiasi modo stiano le cose nella Cagliari che tu racconti c’è un tratto sociale, urban e profondamente umano rappresentato dai rapporti interpersonali. Nelle pagine in cui tu affronti questo aspetto c’è un lirismo accorato che dà al tuo lavoro una connotazione più alta di quella della solita narrativa di genere. La sublimazione della periferia o meglio dei bassifondi attraverso i sentimenti degli uomini che li abitano ti rende uno scrittore quasi unico. Ma è tutto vero? L’isolamento sociale di alcuni ambienti porta chi li vive a immaginarsi come una sorta di “comune”?

Quando sei una grande comunità urbana depressa e repressa – un quartiere, un rione, un ghetto – la retorica del riscatto sociale è la narrazione più condivisa da tutti. Ma, molto spesso, a quel riscatto poi non ci si vuole arrivare davvero, fermandosi, paradossalmente, alla mera esaltazione di quelle problematiche da cui si afferma di volersi affrancare. Penso ai video dei trapper locali che come a Milano, Roma e Napoli spopolano anche a Cagliari: in quei filmati, e nei testi che li accompagnano, il folklore metropolitano del ghetto la fa da padrone, è tutto un osannare giornate all’insegna della violenza, dello spaccio e dei soldi facili, certo non una condanna di quelle dinamiche… 

Banalissimamente ti devo chiedere: quanto c’è di te nel personaggio di Ricky e ti piacerebbe incontrarlo di persona se esistesse davvero?

C’è molto, moltissimo, il suo personaggio è palesemente un mio slavato autoritratto: ha pubblicato un romanzo sulle baby gang cagliaritane, Randagi, che è chiaramente Via libera, il mio precedente libro per Rizzoli, incentrato su quel fenomeno giovanile metropolitano, e sogna di trasferirsi a New York a condurre “la vita ladra”, che è il titolo di uno dei miei romanzi preferiti di Ed McBain. Quanto a incontrarlo, lo faccio ogni mattina, davanti allo specchio del bagno. 

Se Una mattina come questa avesse un colore, che colore sarebbe? 

So che vi aspettate qualcosa come “il nero dell’anima” o “il grigio delle periferie”, ma no, il colore che io associo al romanzo è il verde, quello dei cortili delle villette appena fuori città, i luoghi dove sono cresciuto e dove in parte è ambientato il romanzo. Cortili, sì, e siepi, e viali alberati, come quelli di Torre degli Ulivi, dove Nanni ha riscattato la villetta dei nonni materni e dove gli viene bruciata la macchina. Dove non ti aspetti che certi fattacci possano accadere. Invece, Una mattina come questa… 

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