Torna in libreria un autore che abbiamo amato con “Brava ragazza, cattiva ragazza”, torna dal 18 novembre Michael Robotham. Il maestro  della suspense, che ha conquistato anche Stephen King, ci regala una nuova storia sconvolgente e piena di pathos. Un vero turn-pages che ho il piacere di farvi leggere in anteprima. Ecco, cari lettori, un estratto del suo romanzo.

ESTRATTO

Il tavolino della colazione è stato sparecchiato e c’è stato un viavai di clienti: mattinieri, gente che porta a spasso il cane, negozianti, mamme che accompagnano i figli a scuola, gruppi di madri, circoli del cucito e pensionati in giacca di tweed.

Sacha Hopewell si appoggia allo schienale della panca imbottita e ruota le spalle prima di gettare uno sguardo all’orologio sulla parete.

«Com’è Evie?».

«Una forza della natura. Traumatizzata. Geniale. Arrabbiata. Solitaria».

«Ti piace?».

«Sì».

«È felice?».

«Qualche volta», dico, colto alla sprovvista dalla domanda. La felicità non è un’emozione che associo a Evie perché lei tratta la vita come una competizione e ogni mattina in cui si sveglia è una piccola vittoria.

Sacha ha altre domande, ma abbiamo priorità diverse. Io voglio sapere di Faccia d’angelo, la bambina selvatica con i pidocchi nei capelli e le bruciature di sigaretta sulla pelle. Sacha vuole notizie sulla Evie di oggi, com’è diventata e chi vuole essere.

Le spiego delle ricerche per trovare la sua famiglia, l’esame del dna, le scintigrafie ossee con isotopi radioattivi per determinare l’età, la campagna pubblicitaria su scala mondiale e gli innumerevoli colloqui con assistenti sociali e psicologi.

«Faccia d’angelo non corrispondeva a nessuna delle persone denunciate come scomparse e si rifiutava di dire a chiunque il suo vero nome o l’età. Ecco perché è stato coinvolto il tribunale».

«Mi ricordo come è venuto fuori quel nome: Faccia d’angelo», dice Sacha. «Una delle infermiere all’ospedale le stava pulendo la faccia dalla sporcizia e ha detto: “Hai la faccia di un angelo”. È andata così. Tutte le infermiere erano innamorate di lei, anche se spiccicava a stento qualche parola. Parlava solo se voleva qualcosa: mangiare, bere o andare al bagno. Oppure chiedeva dei cani».

«Li ha nutriti lei».

«È un miracolo che non l’abbiano fatta a pezzi».

«La conoscevano».

Sacha giocherella con un filo del maglione.

«Di che altro parlava?», le chiedo.

«Niente di importante. Continuavo a inventare giochi cercando di indovinare il suo vero nome o di farglielo dire. Mi ha insegnato dei giochi anche lei. Uno si chiamava “Fuoco e acqua”, ancora me lo ricordo».

«Nei rapporti non c’era».

«Immagino che non fosse importante».

Sacha ride per un altro ricordo. «Ci faceva fare un balletto, a me e alle infermiere. Dovevamo metterci in fila,   con le mani sui fianchi della persona davanti. Agitavamo la gamba destra di lato, poi la sinistra, prima di fare un salto indietro e poi in avanti. Lo chiamava “Il ballo del pinguino”. Era uno spasso».

«E gli psicologi l’hanno mai visto?».

«Non credo. Perché?».

Sto per rispondere quando il mio cercapersone si attiva con un suono pigolante.

«Molto vintage», commenta Sacha mentre tolgo la scatolina nera dal fianco e leggo il messaggio che appare sullo schermo a cristalli liquidi.

C’è bisogno di te.

Pochi istanti dopo, arriva un secondo messaggio.

È urgente.

Sacha mi sta osservando con curiosità. «Non hai un telefono».

«No».

«Posso chiedere perché?».

«Sono uno psicologo, il mio lavoro è ascoltare gli altri e apprendere cose da loro. Non posso farlo leggendo un messaggio o un tweet. Dev’essere faccia a faccia».

«Non mi sembra molto professionale».

«Ho un cercapersone. Mi contattano. Li richiamo».

Sacha borbotta qualcosa a bocca chiusa e non sono sicuro che mi creda.

Getto di nuovo uno sguardo al cercapersone. «Devo fare una telefonata».

«La corrente sta girando».

«Ci metto due minuti. Aspettami, per favore».

Il telefono a gettoni più vicino è davanti alla posta. Risponde l’ispettore Lenny Parvel. È in strada. Si sentono motori diesel e un camion che fa retromarcia.

«Dove sei?», chiede.

«In Cornovaglia».

«La vacanza è finita».

«Non è una vacanza», rispondo seccato, cosa che Lenny trova divertente.

«È uno dei nostri», spiega. «Un ex investigatore. Pare si tratti di suicidio. Voglio esserne sicura».

«Dove?».

Snocciola un indirizzo di Tameside.

«Non è il tuo distretto».

«Mi hanno assegnato all’Unità operativa speciale delle Midlands orientali».

«A tempo pieno?».

«Per l’immediato futuro».

«Sono a cinque ore di distanza».

«Aspetterò».

La mia presenza non è in discussione. Di questi tempi non faccio altro che inseguire la morte come un impresario di pompe funebri o un moscone della carne. Quando ho scelto di fare lo psicologo forense, immaginavo di passare il tempo a studiare gli assassini, e non di dovergli dare la caccia.

Dall’altro lato della strada, un fruttivendolo sta sistemando sul marciapiede cassette di frutta e verdura. Carote. Patate. Zucchine. Sacha ha lasciato il bar e sta mettendo delle mele in un sacchetto di carta marrone. La raggiungo mentre paga.

«Ti piacerebbe incontrare Evie?», chiedo.

Lei inarca un sopracciglio. «È consentito?».

«Può ricevere visite».

Sacha valuta l’offerta. La sua naturale curiosità la porterebbe a dire di sì, ma resta cauta.

«Perché sei qui?», chiede, fissandomi con uno sguardo che farebbe desistere il corteggiatore più appassionato. «Hai letto i rapporti su Evie. Ha incontrato medici, consulenti, analisti e psicologi. Non ha parlato con nessuno di loro. Perché dovrebbe farlo con me?».

«Tu l’hai salvata».

Sacha liquida la mia osservazione con un gesto della mano.

«È il mio mestiere. Aiuto le persone a riprendersi dai traumi», spiego.

«E lei è traumatizzata?».

«Sì. La domanda è: e tu?».

Il suo volto si indurisce. «Non mi serve il tuo aiuto».

«Stai scappando da qualcosa».

«Da quelli come te!», mormora con rabbia, allontanandosi di scatto e attraversando il lungomare. Corro a raggiungerla.

«La mia proposta è sincera. Devo tornare a Nottingham. Puoi venire con me, se vuoi».

Sacha non risponde, ma per un attimo, intravedo la sua vulnerabilità. La gioia che un tempo albergava dentro di lei non c’è più; si è isolata dalla sua famiglia, tentando di dimenticare l’accaduto, ma io le ho riportato alla mente quel mare di ricordi.

Ritorno al pub, prendo le mie cose e pago il conto. Il bar è già popolato da un gruppetto di bevitori incalliti che stanno lì tutto il giorno, alzano il gomito con determinazione e con il loro tetro silenzio contribuiscono all’atmosfera generale. Attraverso il parcheggio e apro la mia Fiat rosso sbiadito, gettando la borsa da viaggio sul sedile posteriore. Il motore non parte subito. Premo e rilascio l’acceleratore ripetutamente, ascoltando il motorino d’avviamento che ronza, si accende, tossisce e ronza di nuovo, prima di avviare finalmente il motore.

Lotto con il cambio, faccio retromarcia e svolto verso l’uscita. Sono quasi arrivato alla sbarra automatica quando vedo Sacha sulla barca. Si piega avanti e indietro sui remi, seguendo il bordo del frangiflutti. Le provviste sono coperte da un telone e i suoi capelli sono raccolti sotto il cappuccio della giacca a vento.

Non sono deluso. Sono sollevato. Per adesso è al sicuro e so dove trovarla.

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