Torna in libreria il più grande thrillerista francese: Franck Thilliez e lo fa con la sua casa editrice d’adozione Fazi Editore. Ritorna nelle librerie con un romanzo pubblicato in Francia nel 2013 dal titolo Puzzle, che a nostra opinione riassume in maniera concisa la costruzione narrativa dell’autore. Un romanzo che è stato anche adattato al cinema con il film: Play or Die del regista Jacques Kluger. Un romanzo molto psicologico caratterizzato dalla suspense tipica dei romanzi di Thilliez. Ma se siete qui è per leggere l’estratto e capire cosa stiamo per raccontare con questo blog tour.

ESTRATTO

Faceva un freddo secco quel mattino, nel cuore delle Alpi. La temperatura era pungente ma ideale per una passeggiata con le ciaspole, esattamente ciò che si stava apprestando a fare il maresciallo Pierre Boniface quando aveva ricevuto quella terribile chiamata proprio a fine turno. All’altro capo della linea, la guida faticava a esprimersi, ancora sotto shock per la scoperta. 

L’elicottero della gendarmeria che trasportava Boniface e il collega sorvolava al momento un bosco di larici. Davanti a loro, i primi raggi di sole giocavano tra le montagne, le punte setose si perdevano all’infinito, da una parte fino alla Svizzera, dall’altra fino all’Italia. In ventidue anni di carriera, Boniface non si era mai stancato di quello spettacolo, ogni giorno diverso e delicato come i colori di un pittore sulla tavolozza. Eppure quel mattino non vi aveva prestato particolare attenzione. La sua mente era altrove.

L’elicottero blu e bianco superò un lago e atterrò in una piccola radura, a oltre millequattrocento metri di altitudine. I rotori in movimento sollevarono nubi di neve. Ricurvi, con il naso affondato nel bavero del parka blu scuro e con le ciaspole in mano, i due militari corsero verso l’uomo infagottato in una calda tenuta d’alta quota. Si salutarono, misero le ciaspole e si allontanarono rapidamente. 

«Ha toccato niente?», chiese Boniface.

La guida faceva strada seguendo le tracce che aveva lasciato poco prima. Era un ragazzone dalle spalle larghe, ogni suo passo ne valeva due di Boniface. Per fortuna quel punto del bosco era relativamente in piano, a metà tra la vallata e i pendii che zigzagavano fino alle vette.

«No, ho subito chiamato la gendarmeria».

«Ha fatto bene. Ora ci racconti meglio cos’è successo».

In lontananza, il pilota dell’elicottero aveva spento il motore, restituendo alle montagne la loro calma bianca. Il bosco si infittiva, i tronchi erano talmente vicini gli uni agli altri che i riflessi di luce filtravano tra il fogliame come lustrini dorati. In quel mattino d’inverno, l’intera natura sembrava trattenere il fiato. 

«Appena raggiungeremo il sentiero, troveremo il rifugio del Grand Massif, un vecchio edificio che oggi appartiene alla città. È un edificio senza acqua corrente e senza riscaldamento che di notte può ospitare al massimo una decina di escursionisti in cerca di riparo dalle intemperie. Si trova al centro di una piccola isola, in mezzo a un lago».

«Lo conosco», fece Boniface. «Sono stato a camminare da queste parti con la mia famiglia, un po’ di tempo fa. Il posto è magnifico».

La guida si faceva largo tra gli arbusti.

«Magnifico, sì, direi di sì… La settimana scorsa, alcuni escursionisti hanno segnalato all’ufficio del turismo una perdita nel tetto. Ieri mattina ho portato su un po’ di attrezzi, bisognava fare una sigillatura e fissare un paio di tegole. Oggi doveva venire un muratore a finire il lavoro».

Boniface e il suo subordinato facevano sempre più fatica a respirare. Il freddo estremo prendeva alla gola e la guida procedeva piuttosto spedita. Quel tizio sembrava fatto di granito. 

«Il rifugio è frequentato tutto l’anno, anche in questo periodo, nonostante le condizioni meteo piuttosto difficili. Gli escursionisti arrivano e, se non trovano posto, vanno a quello successivo, un po’ più in alto».

I tre uomini si abbassarono e spostarono i rami carichi di ghiaccio con i guanti. Quel bianco tutt’intorno rendeva il panorama surreale. La natura si mostrava nel suo massimo splendore, ma in quella parte di montagna era pericolosa e richiedeva una vigilanza continua. 

«Ha nevicato fino a mezzanotte circa, prima che la temperatura precipitasse. Quando sono arrivato al rifugio questa mattina, ho subito capito che qualcosa non andava, perché nei dintorni non c’erano orme di scarponi o ciaspole. Eppure, ieri era arrivata gente e quindi…».

«Non era uscito nessuno».

Gli uomini sbucarono dal bosco di larici pochi minuti dopo. Riapparve la luce, accecante sopra le cime. Boniface mise gli occhiali da sole. L’assenza di nubi annunciava una giornata eccezionale. Il gendarme non avrebbe voluto trovarsi lì, soprattutto di domenica. Sapeva bene che, essendo il primo a intervenire sulla scena del crimine, gli sarebbe toccato fare più di un rapporto e compilare un sacco di scartoffie.

Il lago e l’isola, in basso, erano ancora nell’ombra glaciale delle montagne. La guida continuava a parlare:

«C’era sangue dappertutto. Sui letti, sui muri, per terra. Ho visto almeno tre corpi, a sinistra dell’entrata. Quasi tutti avevano dormito vestiti e avevano ancora addosso le scarpe da trekking – la nottata è stata freddissima. Sono stati colpiti alla schiena, come se… li avesse perforati una grandinata. Non sono entrato. Sono corso a telefonare. Ho perfino dimenticato la mia borsa là fuori».

Si fermò e fissò Boniface.

«Lo so che è stato stupido scappare così. Avrei dovuto verificare che non ci fossero dei sopravvissuti».

«Ha fatto bene. Almeno la scena del crimine è rimasta intatta, e questo è l’essenziale».

Boniface risparmiava le parole, concentrato sulla pericolosa discesa. Camminare con le ciaspole richiedeva tecnica e attenzione. Raggiunsero piuttosto rapidamente il lago e il ponte galleggiante che permetteva di accedere all’isola. Dopo aver attraversato un boschetto, raggiunsero infine l’imponente rifugio di pietra, contro il quale era appoggiato il grosso zaino della guida. Il gendarme si fermò di colpo, con lo sguardo fisso a terra. D’istinto slacciò il bottone della fondina legata alla cintura. 

«Queste tracce di passi…».

Dal rifugio uscivano delle impronte, oltre a quelle che la guida aveva lasciato un paio d’ore prima. Si dirigevano a destra e poi verso il retro dell’edificio. L’individuo che le aveva lasciate aveva prima camminato nel sangue. 

«Non c’erano», fece la guida.

«Sicuro?».

«Ne sono certo. Questa mattina la neve era immacolata, fresca dalla notte».

Tacquero. Il maresciallo scrutò con attenzione i dintorni. La guida era forse arrivata nel momento in cui l’assassino aveva commesso gli omicidi e si preparava a fuggire? Non osò immaginare cosa sarebbe successo se il loro accompagnatore fosse entrato nel rifugio. 

Con gesti rapidi staccò le ciaspole, le piantò a terra, poi si tolse i guanti. Adesso, tutti avevano la propria sig Sauer ben stretta tra le mani. Il gendarme fece segno al collega di seguire le impronte, mentre lui si dirigeva verso la porta d’ingresso rimasta socchiusa. La spalancò con il gomito, l’arma puntata davanti a sé. 

Boniface si tolse lentamente gli occhiali da sole. In vita sua si era già trovato su una decina di scene del crimine, ma capì subito che quella lo avrebbe segnato fino alla fine dei suoi giorni.

Facendo qualche passo all’interno, contò cinque corpi a destra, poi tre a sinistra. Alcuni sorpresi nel sonno, ancora avvolti nel piumino con il viso rivolto al muro. Altri a terra, vestiti e con le scarpe, che avevano cercato di afferrare un piede del letto. Uno di loro, completamente nudo, doveva sfiorare i centotrenta chili ma, evidentemente, non era riuscito a difendersi.

Boniface abbassò il mento nel bavero del parka, in modo da contaminare il meno possibile i luoghi con le sue tracce biologiche. Per assicurarsi che non ci fossero sopravvissuti, si avvicinò con prudenza ai corpi immobili che gli davano la schiena.

Morti. Tutti morti.

Il gendarme immaginava già le otto salme, stese le une accanto alle altre sui tavoli per l’autopsia. Vedeva i visi dei loro cari, a cui avrebbero dovuto comunicare la notizia. Curiosamente, gli venne voglia di chiamare la moglie per dirle quanto la amava. 

Ai suoi piedi giaceva una ragazza che doveva avere meno di trent’anni. Fissava il soffitto, con gli occhi spalancati, le braccia aperte come se si offrisse al cielo. Nemmeno lei era stata risparmiata.

Mentre si rialzava, Boniface notò il cacciavite dal manico arancione insanguinato, appoggiato accanto a un battiscopa, vicino a una scatola per gli attrezzi. Forse l’arma del delitto con cui l’assassino aveva colpito al collo, al petto, alla schiena. Gli escursionisti presentavano tutti, senza eccezione, fori in diverse parti del corpo. 

Quei cinque uomini e quelle tre donne si erano addormentati con accanto l’assassino, almeno a giudicare dall’assenza di impronte di passi in direzione del rifugio. 

All’improvviso sentì delle grida all’esterno. Il suo collega stava urlando: «Non ti muovere! Non ti muovere!».

In uno stato di estrema tensione, Boniface corse fuori, ordinò alla guida di restare immobile e fece il giro dell’edificio. Il sole iniziava a riflettersi sulla neve tutt’intorno e le montagne tendevano la loro massa di granito verso il cielo, come per proteggere quegli uomini che stavano scoprendo l’orrore assoluto. Il gendarme vide il subordinato che teneva sotto tiro un tizio ricoperto di sangue. L’uomo era seduto contro il muro, in abiti caldi, berretto calato in testa, le ginocchia raccolte al petto. Alzò gli occhi umidi di lacrime verso i due agenti e disse, con un tono spaventosamente neutro:

«Mi chiamo Lucas Chardon, non ho fatto niente di male. Ditemi solo: da dove viene tutto questo sangue? E cosa ci faccio io qui, in mezzo alle montagne? Non mi ricordo niente».

Related Posts

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *