Torna il detective più scorretto: Bernie Gunther. Tutto era iniziato con la “trilogia berlinese” edito sempre da Fazi, “Violetta di marzo”, “Il crimine pallido” e “Un requiem tedesco”. Pensavamo, noi lettori, che purtroppo con l’ultimo romanzo non potessimo più viaggiare nella Germania degli anni ’40. Nell’ultima avventura eravamo nel 1947 e tra spionaggio e controspionaggio abbiamo chiuso il romanzo dando il nostro personalissimo requiem a questo personaggio molto particolare. Ma oggi, great news, sta per uscire il nuovo romanzo di Philip Kerr “L’uno dall’altro” e il bravissimo autore chi ci presenta come gestore di hotel? Il nostro amato e scorretto Bernie Gunther.

TRAMA

È il 1949, Gunther vive a Dachau e gestisce l’hotel della moglie, dove però nessuno mette mai piede. La donna è da tempo ricoverata in una clinica e lui è sempre più convinto di vendere la struttura e riprendere l’attività di investigatore. L’occasione perfetta gli si presenta a Monaco di Baviera: sommersa dal caos della sconfitta, la città pullula di affari sporchi, avidtà dilagante, criminali di guerra in fuga e colpi bassi di ogni genere. Un luogo dove un investigatore privato può trovare tante opportunità di lavoro non del tutto rispettabili: ripulire il passato nazista della gente del posto, favorire i latitanti nella fuga all’estero, risolvere le rivalità tra malviventi… Finché una donna non si presenta nel suo ufficio: suo marito è scomparso. Trattandosi di un ricercato che dirigeva uno dei lager più feroci della Polonia, non vuole ricongiungersi con lui, ma solo assicurarsi che sia morto. Un lavoro abbastanza semplice. Ma nella Germania del dopoguerra nulla è semplice: accettando il caso, Bernie affronta molto più di quanto si aspettasse, e presto si ritrova in pericolo, circondato da sciacalli, in un paese sconfitto e diviso, dove è difficile distinguere gli amici dai nemici, gli uni dagli altri..

ESTRATTO DAL ROMANZO

Monaco, 1949

Eravamo a un tiro di schioppo da quello che una volta era stato un campo di sterminio. Ma quando davamo delle indicazioni tendevamo a non rivelarlo, se non era strettamente necessario. L’albergo, nella parte orientale della città medievale di Dachau, era lungo una strada secondaria, acciottolata e fiancheggiata da pioppi, separata da quello che una volta era un kz – divenuto poi un centro di accoglienza per cecoslovacchi e tedeschi rifugiati dal comunismo – da un canale del fiume Würm. Il nostro era un edificio a struttura mista di legno e muratura, una villa suburbana di tre piani con un tetto aguzzo fatto di tegole arancioni e circondato, al primo piano, da un balcone straripante di gerani rossi. Era il genere di edificio che aveva visto tempi migliori. Da quando i nazisti, e poi i prigionieri di guerra tedeschi, avevano lasciato Dachau, nessuno veniva più nell’albergo, eccetto forse, di tanto in tanto, ingegneri edili che sovrintendevano alla parziale distruzione del kz nel quale, per diverse settimane assai spiacevoli dell’estate del 1936, io stesso ero stato detenuto. I rappresentanti eletti dalla gente della Baviera non vedevano la necessità di conservare i resti del campo per visitatori contemporanei o futuri. La maggior parte dei residenti della cittadina, me incluso, erano tuttavia dell’opinione che il campo costituisse l’unica opportunità di portare soldi a Dachau. Ma c’erano poche possibilità che accadesse fino a che non fosse stato edificato un tempio alla memoria e la fossa comune nella quale erano state seppellite più di cinquemila persone fosse rimasta non segnalata. I visitatori si tenevano alla larga e, malgrado i miei sforzi con i gerani, l’albergo cominciò a morire lentamente. Così, quando una Buick Roadmaster due porte ultimo modello si affacciò sul nostro vialetto di mattoni, mi dissi che quei due uomini probabilmente si erano persi e che si erano fermati per domandare la strada per la caserma della Terza Armata degli Stati Uniti, benché fosse difficile immaginare come avessero potuto mancarla.

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