Uno scrittore da un curriculum molto importante che ha pubblicato con grande case editrici come Neri Pozza e Morellini Editore. Adesso con Fazi Editore, il giornalista e traduttore Marco Montemarano si cimenta con il noir psicologico approdando nella bellissima collana della casa editrice romana, Dark Side. Il suo ultimo romanzo dal titolo “In questa vita no” è stato definito affilato e carico di tensione. Vi diamo l’opportunità di leggerne un estratto in anteprima.
TRAMA
Conosciamo davvero le persone che amiamo?
Una donna con un terribile segreto, un uomo disposto a tutto pur di continuare ad amarla. Ma cosa è successo esattamente quel giorno in spiaggia? Perché quella tragedia inconcepibile e assurda? Dopo trent’anni trascorsi all’estero, Giovanni è tornato a Roma e gestisce una palestra frequentata anche da amici e conoscenti della sua gioventù. L’uomo ha una relazione con Alessandra e il loro è un legame libero, fatto di piccoli gesti e attrazione. Un giorno, però, Giovanni viene a sapere che Alessandra gli ha sempre taciuto un fatto atroce riguardante il suo passato, un fatto incomprensibile e violento, avvenuto anni prima durante una vacanza in famiglia. Alla ricerca della verità, l’uomo trova diverse prove che confermano la colpevolezza di Alessandra, protagonista di una vicenda di cronaca scioccante. A questo punto, ogni ricordo è alterato, ogni certezza vacilla e l’uomo decide di allontanarsi da lei per cercare di ricostruire le tessere mancanti del mosaico e capire con chi realmente abbia avuto a che fare. Quel terribile episodio inizia a macchiare ogni momento trascorso insieme, costringendo il protagonista a cercare risposte: una ricerca sofferta che lo porterà a fare i conti con se stesso riportando a galla sensi di colpa e vecchie inimicizie per far luce su una vicenda molto più complessa di quanto credesse e in cui suo malgrado si ritrova immerso.
ESTRATTO
Che fai se la persona che ami ti ha tenuto nascosta la cosa più importante?
Non parlo di un segreto qualunque, ma di una cosa che nessuno potrà mai perdonare e che tu avevi il diritto di sapere per essere libero di scegliere.
Un fatto talmente mostruoso che quando lo scopri non sai più se questa persona esista o se ce ne sia un’altra al posto suo: una specie di lupo mannaro impossibile da amare.
Che fai, allora? Ti metti subito al lavoro e cerchi di capire? Provi a parlare e a chiedere le ragioni?
No. Per prima cosa muori.
Alessandra, la donna di cui sto parlando e che adesso mi sembrava di non conoscere più, aveva detto che sarebbe arrivata tra le sette e le otto. L’ora dell’aperitivo. E io il giorno prima le avevo promesso che avrei chiesto a uno dei ragazzi di chiudere la palestra al posto mio e che mi sarei fatto trovare in casa per poter passare tutta la serata con lei.
Avremmo apparecchiato la tavola. Ci saremmo messi a preparare il risotto rallentando i nostri piccoli gesti, sfiorandoci con le dita e facendo frusciare la stoffa dei vestiti. Come sempre i miei movimenti sarebbero finiti dove iniziavano i suoi, senza urti o intralci.
Avremmo fatto riposare il risotto in pentola sgranocchiando due olive sul divano secondo un rituale collaudato. Ognuno dei due avrebbe sputato il nocciolo nella mano dell’altro. Avremmo cenato e poi visto un film, o un’altra puntata della solita serie.
Niente violazioni del coprifuoco in questo caso, nemmeno per fare il giro dell’isolato mano nella mano e dividerci una sigaretta come ci era capitato altre volte. Verso mezzanotte saremmo andati a letto e non avremmo messo la sveglia, perché il giorno dopo non avevamo impegni. Sarebbe stata una serata di felicità compatibile con i tempi che correvano.
Ma poi, quel pomeriggio, avevo letto tutti i vecchi articoli di cronaca che la riguardavano e in poco tempo mi si erano prosciugati gli occhi e la bocca. La mia vita era stata rivoltata con un unico colpo violento e mi ero ritrovato stordito a casa mia, senza nemmeno sapere come ci fossi arrivato, diviso tra il dubbio di non essere più vivo e l’istinto di sopravvivere.
Mentre scorrevo ancora una volta quei vecchi articoli, mi era arrivato un messaggio di Alessandra sul telefono. Non so più che cosa avesse scritto esattamente, ma ho il ricordo di me che tardavo a rispondere in cerca di un tono neutro, una frase che sembrasse naturale ma non troppo insincera. Digitai qualcosa, non so più cosa, con i pollici che tremavano.
Poi provai a calmarmi uscendo di casa e percorsi la via verso la vecchia scuola elementare che avevo finito di frequentare cinquant’anni prima. La targa di marmo con il nome in lettere di bronzo era spaccata e ne mancava un pezzo.
Il solito odore di piscio riscaldato delle periferie romane mi ricacciò a casa. Tutta quell’incuria in un’altra occasione mi avrebbe solo avvilito. Quel pomeriggio invece ebbe l’effetto di aumentare la mia angoscia.
Eppure perfino in quei momenti una parte di me provava a ragionare. Ad esempio: dovevo chiamare Alessandra e dirle di non venire, per guadagnare tempo e darmi modo di riaccomodare i pensieri, oppure dovevo aspettare il suo arrivo come avevamo concordato la sera prima?
Ormai era troppo tardi per dirle di rimanersene a casa ed ero terrorizzato all’idea che quella donna fisicamente molto più piccola di me potesse farmi del male. Forse in fondo la mia non era nemmeno paura, ma un sentimento simile a quello che si prova davanti all’incendio della propria casa.
Una volta a casa mi misi a cercare un punto da cui poter studiare le sue mosse fin dal momento in cui fosse entrata. Sapevo che avrei dovuto parlarle subito e nello stato in cui mi trovavo ero arrivato, assurdamente, a temere una sua reazione violenta. Trascinai la poltrona di pelle lungo il pavimento e l’accostai alla finestra del balcone. Se Alessandra mi avesse aggredito avrei potuto fuggire all’esterno e scavalcare il divisorio che separava il mio terrazzino da quello dei vicini, per chiedere rifugio a loro.
Quando fui seduto mi resi conto che da quell’angolazione la porta d’ingresso non era visibile. Allora spostai la poltrona poco più avanti e mi ritrovai al centro della stanza. La porta del balcone era ancora abbastanza vicina ma al tempo stesso, se piegavo il busto sopra al bracciolo, riuscivo a vedere l’uscio.
A ripensarci non riesco a credere di aver compiuto tutta quella serie di azioni sconclusionate. Avevo scoperto che la persona che amavo era un’altra e anch’io in poche ore mi ero trasformato in un altro.
Ora ero lì, seduto in poltrona al centro del salotto con la maglietta fradicia di sudore. Ma le assurdità non erano ancora finite, perché alle sette e dieci mi accorsi che mancava qualcosa. Corsi in cucina, presi il coltello più grosso che trovai e lo nascosi sotto al cuscino della poltrona, con il manico alla portata della mia mano destra in modo da poterlo impugnare per difendermi.
Poi dal terrazzino una folata di vento mi investì dissipando il fumo di follia che mi aveva intossicato nelle ultime ore. L’idea del coltello mi sembrò infinitamente stupida e iniziai a ridere di me finché il riso si sfasciò nel pianto.
Però dimenticai il coltello sotto al cuscino della poltrona e me ne rimasi seduto ad aspettare Alessandra. Intanto tenevo d’occhio l’Apple Watch che lei mi aveva regalato per il mio compleanno e che usavo solo in allenamento. Per tutta l’ora successiva le mie pulsazioni si mantennero costanti a 110, finché alle otto e cinque ci fu il rumore della chiave nella serratura.
Una donna saggia ha sempre qualcosa da dire, ma il più delle volte rimane in silenzio.