Sarà il titolo, ma quest’estate troverete sicuramente il posto giusto e il momento giusto per leggere il thriller di Gillian McAllister edito da Fazi. La scrittrice inglese è stata scelta con il romanzo Wrong place, wrong time (titolo originale) dal book club di Reese Whiterspoon, che per chi non lo sapesse in America è molto seguito a tal punto che il romanzo di McAllister è balzato al 2° posto della classifica dei bestsellers del New York Times … Quindi non vi resta che leggerlo, un ottimo motivo lo troverete sicuramente.

TRAMA

Fine ottobre. Mezzanotte passata. Jen, affacciata alla finestra, sta aspettando che il figlio diciottenne torni a casa. Non ha rispettato il coprifuoco. A un certo punto il ragazzo compare, ma non è solo: si sta avvicinando a qualcuno, e ha qualcosa in mano. Impietrita, Jen assiste a una scena che non si sarebbe mai immaginata: suo figlio accoltella un uomo. Non riesce a crederlo: Todd, un adolescente spiritoso e felice, ha appena ucciso uno sconosciuto, proprio lì, sulla strada di casa. Non sa chi sia. Non sa perché. Sa solo che il suo futuro è distrutto. Quella notte si addormenta disperata. Tutto è perduto. Finché non si sveglia… ed è ieri. E poi si sveglia di nuovo… ed è l’altro ieri. Ogni mattina al risveglio Jen scopre di essere tornata indietro nel tempo. Può evitare che quell’omicidio avvenga. Tassello dopo tassello, emergono dei particolari sulla vita di suo figlio di cui era completamente all’oscuro. La faccenda si fa sempre più inquietante, finché Jen non fa la scoperta peggiore di tutte: suo marito è coinvolto. Da qualche parte, nascosta nel passato, c’è una soluzione, e non ha altra scelta: deve trovarla.

ESTRATTO

Giorno Zero, subito dopo mezzanotte

Jen è felice che stanotte ci sia il cambio dell’ora. Un’ora in più, tempo extra, da passare fingendo che non stia aspettando sveglia suo figlio.

Adesso che è passata la mezzanotte, è ufficialmente il 30 ottobre. È quasi Halloween. Jen ricorda a se stessa che Todd ha diciotto anni: il suo bambino, che li ha compiuti a settembre, ormai è un adulto. Può fare tutto quello che vuole.

Jen ha passato gran parte della serata a intagliare malamente una zucca. Adesso la appoggia sul davanzale della finestra panoramica che dà sul loro vialetto e vi mette dentro una candela. L’ha intagliata soltanto per il motivo per cui fa la maggior parte delle cose – perché sentiva di doverlo fare –, ma a dire il vero è venuta piuttosto bene, a modo suo è carina, così, tutta frastagliata.

Jen sente i passi di suo marito, Kelly, sul pianerottolo sopra la sua testa e si gira per guardare. È strano che sia sveglio a quest’ora: lui è quello mattiniero, mentre lei è la nottambula. Kelly esce dalla loro stanza da letto al piano di sopra. Ha i capelli arruffati: nella penombra sono neri, con un riflesso bluastro. Non ha addosso niente, solo un sorrisetto ironico, che soffia via da un angolo della bocca.

Scende le scale verso di lei. La luce gli illumina il tatuaggio che ha sul polso, una data, il giorno in cui ha sempre detto di aver capito di amarla: era la primavera del 2003. Jen lo guarda. Solo alcuni dei peli scuri che ha sul petto sono diventati bianchi nel corso dell’ultimo anno, il suo quarantatreesimo. «Hai faticato molto?». Con un cenno indica la zucca.

«Ne hanno fatta tutti una», si giustifica Jen fiaccamente. «Tutti i vicini».

«E chi se ne importa?», commenta lui. Tipico di Kelly.

«Todd non è ancora rientrato». 

«È prestissimo, per i suoi standard», le fa notare. Un leggero accento gallese che si avverte appena sulla parola “prestissimo”, come se il suo respiro incespicasse su una catena montuosa. «Non è all’una? Il coprifuoco, dico».

È il loro solito botta e risposta. Jen si preoccupa molto, Kelly forse troppo poco. Proprio mentre Jen sta pensando questo, lui si gira, ed eccolo lì: il suo sedere perfetto, davvero perfetto, che Jen ama ormai da quasi vent’anni. Lancia un’occhiata alla strada, sperando di vedere Todd, e poi sposta di nuovo lo sguardo su Kelly.

«Guarda che i vicini ti vedono il sedere», gli fa notare.

«Penseranno che sia una zucca tra le tante», ribatte lui, il senso dell’umorismo rapido e affilato come la lama di un coltello. Punzecchiarsi. È sempre stato questo il loro modo di rapportarsi l’uno all’altra. «Vieni a letto? Non riesco a credere che Merrilocks sia finita», aggiunge stiracchiandosi. Ha passato tutta la settimana a restaurare il pavimento di piastrelle vittoriane di una casa di Merrilocks Road. Lavorando da solo, proprio come piace a lui. Ascolta un podcast dopo l’altro e praticamente non vede nessuno. Complicato, in un certo senso irrisolto: ecco com’è Kelly. 

«Certo», risponde lei. «Tra un attimo. Voglio solo essere sicura che Todd arrivi a casa sano e salvo». 

«Sarà qui da un momento all’altro, con un kebab in mano». Kelly le fa un cenno. «Aspetti le patatine?».

«Smettila», gli dice Jen con un sorriso. 

Kelly le fa l’occhiolino e si ritira a letto. 

Jen vaga in casa senza una meta. Pensa a un caso a cui sta lavorando, una coppia che sta divorziando e che litiga principalmente per un servizio di piatti di porcellana, ma in realtà, com’è ovvio, per un tradimento. Non avrebbe dovuto accettarlo, ha già più di trecento casi da seguire. Ma la signora Vichare l’ha guardata durante il loro primo incontro e le ha detto: «Se dovrò dargli quei piatti, avrò perso tutto ciò che amo», e lei non è riuscita a resistere. Vorrebbe che non le importasse così tanto – degli estranei che divorziano, dei vicini, delle zucche, cazzo – ma le importa eccome.

Si prepara un tè e se lo porta alla finestra panoramica, continuando la sua veglia. Aspetterà tutto il tempo che ci vorrà. Tutte e due le fasi di quando si è genitori – gli anni della prima infanzia e quelli dell’età quasi adulta – sono segnate dalla mancanza di sonno, anche se per ragioni diverse.

Hanno comprato questa casa proprio per questa finestra, al centro esatto dell’edificio a tre piani. «Da qui sorvegliere­mo tutto come se fossimo i re della strada», aveva detto Jen, e Kelly aveva riso. 

Osserva l’aria umida di ottobre ed ecco finalmente spuntare Todd sulla strada. Jen lo vede nel momento esatto in cui scatta il cambio dell’ora e il suo telefono passa dall’01:59 all’01:00. Reprime un sorrisetto: visto che le lancette dell’o­rologio stanno tornando indietro, suo figlio non è più in ritardo. Lo ha fatto apposta. Signore e signori, ecco a voi Todd: quando si tratta di contestare un coprifuoco lui considera le contorsioni linguistiche e semantiche più importanti delle ragioni che vi stanno dietro.

Sta avanzando a grandi passi lungo la strada. È pelle e ossa, sembra che non prenda mai peso. Mentre cammina, sotto la stoffa dei jeans gli si vedono le ginocchia appuntite. La nebbia che incombe sulla strada è incolore, gli alberi e l’asfalto neri, l’aria di un bianco traslucido. Un mondo sulla scala dei grigi.

La loro strada – all’estremità di Crosby, nel Merseyside – non è illuminata. Kelly ha installato una lampada in stile Narnia fuori casa. Era stato un regalo a sorpresa per lei. È di ferro battuto, molto costosa: Jen non sa dove abbia preso i soldi per comprarla. Ha anche un sensore di movimento.

Ma… un attimo. Todd ha visto qualcosa. Resta immobile, socchiude gli occhi. Jen segue la traiettoria del suo sguardo e poi la vede anche lei: una sagoma che avanza a passi rapidi sull’altro lato della strada. È un uomo, più grande di Todd, molto più grande. Jen lo capisce dal suo fisico, dai suoi movimenti. Lei nota queste cose, è sempre stato così. È ciò che fa di lei una brava avvocata.

Appoggia una mano calda sul vetro freddo della finestra.

C’è qualcosa che non va. Sta per succedere qualcosa. Jen ne è sicura, pur senza essere in grado di dire cosa; una specie di sesto senso che si attiva quando c’è un pericolo, quello che prova in prossimità dei fuochi d’artificio, i passaggi a livello e l’orlo dei precipizi. I pensieri le si rincorrono nella testa come i clic di una macchina fotografica, uno dopo l’altro.

Jen appoggia la tazza sul davanzale della finestra, chiama Kelly, poi scende le scale a due a due, la moquette a strisce ruvida sotto i suoi piedi scalzi. S’infila un paio di scarpe e poi resta immobile per un secondo con la mano sul pomello di metallo della porta d’ingresso. 

Cosa… che cos’è questa sensazione? Non sa spiegarlo.

È un déjà-vu? Non le capita quasi mai di averne. Sbatte le palpebre e la sensazione svanisce, inconsistente come il fumo. Che cos’è stato? La mano sul pomello d’ottone? La lampada gialla che brilla all’esterno? No, non riesce a ricordarlo. E ormai è passato. 

«Che succede?», le chiede Kelly, comparendo dietro di lei mentre si allaccia la cintura di una vestaglia grigia.

«Todd… è… è lì fuori con… qualcuno».

Escono in tutta fretta. Il freddo autunnale le fa gelare all’istante la pelle. Jen va verso Todd e lo sconosciuto. 

Ancora prima che abbia anche solo realizzato che cosa sta succedendo, però, Kelly ha già gridato: «Fermi!».

Todd sta correndo e, nel giro di qualche secondo, stringe in pugno la parte davanti della giacca con il cappuccio dello sconosciuto. Si sta preparando ad affrontarlo, le spalle in avanti, il corpo vicinissimo a quello di lui. Lo sconosciuto s’infila una mano nella tasca. 

Kelly sta correndo verso di loro, una maschera di panico, lo sguardo che si sposta a destra e a sinistra, da un lato all’altro della strada. «Todd, no!», grida. 

Ed è in quel momento che Jen vede il coltello.

L’adrenalina rende la scena più nitida ai suoi occhi mentre lo vede succedere. Una pugnalata rapida, netta. E poi tutto rallenta: il movimento del braccio che si ritrae, la stoffa che resiste per poi cedere al coltello. Due piume bianche emergono insieme alla lama, fluttuando inutilmente nell’aria gelata come fiocchi di neve. Jen continua a guardare mentre il sangue inizia a sgorgare, a fiotti. Evidentemente deve essersi inginocchiata, perché si accorge dei sassolini del vialetto che le si conficcano nelle ginocchia. Gli sta reggendo la testa, gli sta aprendo la giacca e sta sentendo il calore del sangue che le zampilla sotto le mani, tra le dita, lungo i polsi.

Gli sbottona la camicia. Il torso inizia a esserne inondato; le tre ferite, che sembrano fessure per le monete, compaiono e scompaiono davanti ai suoi occhi: è come cercare di vedere il fondo di uno stagno rosso. Jen è completamente raggelata.

«No». La sua voce è spessa e bagnata mentre urla.

«Jen», le dice Kelly con la voce roca. 

C’è così tanto sangue. Lo mette disteso sul vialetto e si allunga su di lui, guardandolo con attenzione. Spera di sbagliarsi, ma per un attimo è sicura che non ci sia più. Nel mo­do in cui la luce giallastra del lampione gli colpisce gli occhi c’è qualcosa di sbagliato.

Per strada regna il silenzio e, dopo quelli che devono essere vari minuti, Jen sbatte le palpebre scioccata per poi alzare lo sguardo verso suo figlio.

Kelly ha allontanato Todd dalla vittima e gli tiene le braccia strette intorno alla vita. Suo marito le dà la schiena, mentre Todd è di fronte a lei e si limita a guardarla al di sopra della spalla del padre con un’espressione indefinibile. Poi lascia cadere il coltello, che tintinna come la campana di una chiesa quando il metallo tocca il marciapiede gelato. Si passa una mano sul viso, lasciandovi una striscia di sangue. 

Jen osserva la sua espressione. Forse è pentito, forse no. Non riesce a capirlo. Jen riesce a interpretare quasi tutti, ma non è mai riuscita a interpretare Todd.

Traduzione: Enrico Budetta

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