Piergiorgio Pulixi si è concesso alle domande dei suoi lettori del gruppo i Thriller di Edvige e altro tra le righe. Il suo ultimo romanzo “L’isola delle anime” è edito da Rizzoli nella collana Nero Rizzoli.

CRISTINA MAZZUCCATO: Piergiorgio innanzitutto grazie per la tua disponibilità che ormai conosciamo e sappiamo essere immensa verso noi lettori. Ti chiedo… C’è un “rito” particolare che segui, al quale non potresti mai rinunciare, che ti aiuta nell’ispirazione o nei momenti di “blocco da scrittura” (se mai ne hai avuti)?

Grazie a voi, ci mancherebbe… Vediamo. Solitamente, nella mia impostazione metodologica, tendo a dedicare molto tempo alla lievitazione dell’idea e all’irrobustimento delle sue parti; questo mi permette di avere le idee molto chiare su quella che sarà la storia in tutte le sue propaggini e non soltanto nei macro elementi drammaturgici. Avere le idee cristalline sulla storia è un buon antidoto contro il “blocco da scrittura”, nel senso che non capita mai che non sappia cosa scrivere. Questo metodo di lavoro ha anche un altro punto positivo: dedicando precedentemente molta cura e attenzione alla struttura della storia, successivamente posso concentrami di più sul “come” scrivere quella storia, quindi sullo stile e gli aspetti più letterari del romanzo. Per la ritualità… L’inizio del processo creativo per me coincide con la somma di tanti fattori, possiamo anche chiamarli “piccoli riti”: il titolo, per esempio. Se non ho un titolo – anche provvisorio – da dare alla storia, mi viene difficile cominciare. Il titolo è un po’ il tuo punto cardinale di riferimento, la tua rotta emotiva. Silenzio e solitudine: purtroppo ho molta difficoltà a scrivere in luoghi in cui questi due elementi on siano rispettati, e non impazzisco all’idea di cambiare luogo di scrittura; da questo punto di vista sono molto stanziale. Disciplina: ogni nuova storia è anche una “campagna militare”, nel senso che presuppone tanta disciplina e dedizione: questo per me si sostanzia in alzatacce all’alba fino al termine del libro; ritmi costanti di scrittura, ogni giorno per almeno cinque, sei ore. Negli ultimi tempi la corsa è diventata una compagna costante degli aspetti creativi: da una parte mi permette di scaricare tutte le ansie e le tensioni, dall’altra è una sorta di profonda forma di meditazione: quando corro non ascolto musica, ma solo i miei pensieri, e questo spesso mi porta “dentro” le storie a cui lavoro, da un punto prospettico diverso. Quindi, per riepilogare, la disciplina e la routine sono la mia ispirazione.

TIZIANA LEONE: Parliamo de “Lo stupore della notte” e del personaggio femminile Rosa Lopez, amatissimo dai tuoi lettori. Come nasce e a chi ti sei ispirato?

Rosa nasce dalla volontà di raccontare un personaggio forte, tridimensionale, apparentemente infrangibile all’esterno, ma pieno di filature e venature al suo interno. È il vero maschio Alfa della sua squadra, ma questo per lei è anche una condanna: non può mostrarsi per quella che è davvero, deve indossare sempre la maschera della leader, di quella che ha sempre una soluzione per tutto. Ed effettivamente ha sempre una soluzione, ma questo in ambito professionale; nella sua sfera più personale invece è una donna fratturata emozionalmente, allo sbando. Questo dualismo mi affascinava molto, quasi che per Rosa “lavoro” e “vita personale” fossero due aspetti inconciliabili se non nel modo che il lavoro ha di inglobare anche la sua vita privata. Rosa era un tentativo letterario per cercare di raccontare quanto sia difficile per una donna fare quel mestiere senza dover rinunciare alla propria femminilità, in un mondo in cui a una donna non è concesso di sbagliare, perché la società non lo tollererebbe. Come quasi tutti i miei personaggi è una summa di tante psicologie e tanti vissuti diversi: è un concentrato di tante donne forti che ho incontrato in questi anni, non soltanto nell’ambito dei tutori della legge.

LUISA COLOMBO: Se fosse l’ultimo giorno di vite sulla terra e dovessi salvare un libro quale sceglieresti?

Quindi: se fosse l’ultimo giorno di vita sulla terra, sicuramente il mio umore non sarebbe alle stelle, e non mi formalizzerei a leggere qualcosa di triste o pesante, perché non sarebbe il caso, e il mio umore calerebbe ulteriormente a picco. Quasi sicuramente opterei per qualcosa di leggero, che mi facesse ridere o sorridere, divertire, nel senso etimologico del verbo de vertere, volgersi altrove, allontanarsi dai problemi. I primi romanzi della serie di Hap&Leonard di Joe Lansdale mi hanno sempre divertito, e li ho riletti diverse volte proprio per questa loro caratteristica. Probabilmente sceglierei Bad Chili. Me ne andrei col sorriso sulle labbra.

GABRIELLA FIANO: Tralasciando l’ovvietà che ogni esperienza di viaggio arricchisce (se penso solo al tuo incontro con Carlotto… ?), la mia domanda è: quanto, semmai c’è stato, lo scontro tra le tue due anime, quella da isolano e quella da viaggiatore e/o “emigrante” (tra Londra, Milano, ecc.), ha influito sulla tua scrittura? 

In realtà – ti parlo ovviamente a titolo personale – il fatto che sia isolano non presuppone in me una forte stanzialità, o un desiderio/bisogno di salde radici nel territorio. Amo sicuramente l’Isola con tutto me stesso, ma questo anziché imbrigliare la mia curiosità e la voglia di viaggiare, le amplifica. Forse proprio in virtù del mio essere isolano il desiderio di conoscere ed esplorare è più forte. Non mi è mai pesato viaggiare, anzi. Perciò queste due anime convivono pacificamente in me, e credo che sia proprio la loro armonia a determinare la mia scrittura e le mie storie: sono vicende spesso diverse tra loro, per genere, ambientazioni e personaggi, quasi che riflettessero il mio bisogno di “vivere” luoghi diversi da cui trarre ispirazione ed emozioni. Il viaggio è una dimensione molto cara a lettori e autori. Leggere significa viaggiare. E lo è anche scrivere. Le idee e le storie migliori le ho trovate proprio viaggiando

DANI FAILLA: Hai iniziato la carriera di scrittore molto giovane. Quando hai capito di avere questo dono e di volerne fare la tua professione?

Ti confesso che non c’è stato un momento preciso, nel senso un’illuminazione estemporanea che mi abbia portato a maturare questa decisione. Si è trattato piuttosto di una serie di epifanie, di fascinazioni letterarie che mi hanno indotto a innamorarmi del mestiere e della scrittura. La lettura di un albo di Dylan Dog, per esempio, una storia intitolata Il lungo addio, a mio avviso una delle più belle storie d’amore di tutti i tempi, ha avuto un ruolo profondo in questa mia scelta. Leggendo quella storia, che mi ha graffiato il cuore – e tutt’ora al solo pensarci le ferite si riaprono – mi sono innamorato del potere e dell’influenza che la storia può avere sulla vita di una persona. Quando ho letto per la prima volta Sàndor Màrai ho avuto le stesse sensazioni, così come ogni volta che leggevo Stephen King, che è l’autore in assoluto a cui sono maggiormente debitore. Tanti momenti diversi, che corrispondono a tante opere narrative differenti. Quindi è un po’ come se la mia Musa fosse stata una sorta di Pollicino che mi ha lasciato per strada – anziché dei sassolini – dei libri, dei fumetti, delle poesie e dei film che mi hanno regalato delle fascinazioni profonde verso l’arte di raccontare storie. L’ultimo “sassolino”, quello decisivo, è stato On Writing di Stephen King. Lì, per la prima volta, ho deciso di provarci. Da quel libro, continuo a provarci ogni giorno. 

Grazie a Piergiorgio Pulixi.

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