
IL FOTOGRAFO E’ COLUI CHE PONE UNA DOMANDA AL MONDO
di CAROLA ALLEMANDI
Eccoci al nostro primo incontro: il primo di tanti, spero, dedicati ad alcuni temi spinosi, o solo curiosi, della fotografia contemporanea.
Normalmente si parte parlando della luce quando si inizia qualunque discorso sulla fotografia. Questa volta vorrei partire invece dal diretto contraltare della luce, qualcosa che al giorno d’oggi sembra sempre più slegato dal fotografare: il corpo.
Perché la fotografia diventi quell’immagine che abbiamo appeso sulle pareti di casa nostra, che vediamo sullo smartphone, che osserviamo nei musei, è necessario che esistano i corpi: i corpi solidi del mondo che ci circonda, così come delle persone che lo abitano; il corpo fisico dell’apparecchio fotografico; il corpo del fotografo.
Ecco, soffermiamoci su quest’ultimo: con l’invasione dell’intelligenza artificiale nel nostro immaginario e vocabolario quotidiano, ora siamo portati a intendere la fotografia come qualcosa di sempre meno materico, in balia dei programmi computazionali e degli algoritmi, dimenticandoci che la fotografia nasce nel momento in cui esiste una persona che guarda il mondo. Una persona con un corpo, naturalmente, capace di muoversi nello spazio, di capirlo, dentro il quale attuerà una scelta che consentirà di guardare questo spazio da una certa visuale rispetto a un’altra. Questo è il primo parametro della fotografia: esistere come corpo capace di guardare la luce.
Il fotografo è colui che pone una domanda al mondo. Come in un dialogo verbale, accetta di assimilarne i messaggi, cercando di comprenderli e interrogarli. L’immagine nasce nel corpo come un brivido, come un’attivazione biologica nei confronti di cosa si guarda. Questo credo sia l’aspetto più magico della fotografia, soprattutto del praticarla: sentirsi attraversati dal significato del visibile, che prende forma sotto i nostri occhi di colpo; un’illuminazione. Potremmo dire che il corpo e gli occhi, insieme, siano la locuzione basilare della fotografia.
Henri Cartier-Bresson, uno degli autori più significativi della storia della fotografia, ha pronunciato una frase divenuta ormai molto celebre: “Quello che un buon fotografo deve cercare di fare è mettere sulla stessa linea di mira il cuore, la mente e l’occhio.” Personalmente, aggiungerei all’elenco anche tutti gli altri organi, il midollo spinale, le ossa: mi piace pensare alla visione come un flusso vivo che passa attraverso le cellule; come una proteina, più che un’informazione puramente ottica e cognitiva.
Per ricordare un altro maestro, Evgen Bavčar è un fotografo divenuto cieco all’età di dodici anni. Si pensi al paradosso: un uomo cieco che comunque delega alla fotografia la spiegazione del proprio rapporto con la realtà. Questo ci insegna che è proprio l’essere presente in uno spazio, l’esserci, nonostante il potere degli occhi, a permettere la visione e quindi la fotografia. La materia in questo modo si compie nell’idea, nell’immagine, in un passaggio naturale che fa del corpo la matrice del pensiero.
La fotografia possiede dunque una causa solida, fisica, una radice ben piantata nella carne di chi la produce. Per questo motivo un’altra delle sue magie è il momento in cui riusciamo a connettere il nostro sguardo con quello di chi fu davanti alla scena che vediamo ora riprodotta nell’immagine: un’empatia degli occhi che porta il nostro corpo dove non siamo mai stati.
Perché soffermarsi su questo punto? Per chiamare le cose col proprio nome, per ricordarsi che l’arte esige sempre una presenza, e anche la visione.