LA SALVEZZA DEL RICORDO E’ L’UNICA LIBERTA’ POSSIBILE

di CONCETTA MELCHIODA

I libri possono prendere per mano, sapete. E non lasciarti più. Così, qualche giorno fa. Esattamente una domenica. Con timidezza, mi avvicinai a questo libro. Mi sentivo come la protagonista del “Senso di Smilla per la neve”. Stranamente inadeguata e, al contempo curiosa. Di una curiosità irresistibile. Come quella del protagonista di questo romanzo. Marco Petrovici. Marco che vive a Berlino, che ha una relazione aperta, fluida e semifinita con Luisa, artista underground e globetrotter. Ragazza d’Europa, citando Gianna Nannini. Lui, ragazzo fluido del Sud Europa, per la precisione di Taranto, Magna Capitale dell’acciaio e della polvere rossa. La Magna Grecia, i due Mari, il porto, il ponte girevole, sono solo graffiante passato, irto di barocchi sfaceli e di consunte bellezze. Marco che sviene, ha attacchi di panico. Ha la Da. Sindrome da attacco di panico.  Marco, che torna. A Taranto. Al presente. A due genitori anziani. Al passato con cui deve fare i conti necessariamente. Il passato, il silenzio, il non detto, il dolore. Il cuore di ghiaccio nascosto da strati di memoria negata. Da sensi di colpa ed ataviche vergogne, tanto da divenire veleno.  Malbianco, appunto. Quel viluppo di fibra malefica che dà la morte lenta a piante, alberi. E allora, bisogna scavare. Andare lontano.  Nel tempo e nello spazio. Laddove la rimozione è il senso della malattia. Marco affronta il viaggio. Sa, intimamente cosa fare. Come una rondine conosce la strada, la rotta della migrazione.

E va indietro. A quel cognome strano, Petrovici, che sa di slavo, a una ninna nanna yiddish, alla sua bisnonna che vendeva muli libera, fiera e indipendente, senza uomini da cui dipendere. A uno zio strano musicista con la divisa dell’Armata Rossa, pur essendo stato nell’ Armir, al nonno ufficiale e maestro elementare, alla sua prigionia in Germania, taciuta, nascosta, misteriosa. Avvenuta esattamente nel luogo dove lui viveva, vicino Berlino. Tutto chiama. Il dolore di più. Attraversa tempo, generazioni, e chiede, urla. Vuole vivere una fine. Bussa, bussa, fino a quando gli deve essere aperto. Non si ferma.  Non dà requie, perché la memoria è l’unico linguaggio tra vivi e morti. E le lacrime, il dolore del pianto dei morti, devono trovare pace. Trovare ascolto. Solo così può tornare l’equilibrio, la liberazione, la purificazione. Non importa se con fuoco, neve, acqua o lucida primavera. Anche per mille gavette di ghiaccio, un violino perso nelle steppe ucraine, un pogrom zarista di ebrei, una diaspora bella e triste come un dipinto di Chagall.  Si, questa è la visione di questo romanzo.  Chagall, i rabbini, la neve, la Russia.

La salvezza del ricordo è l’unica libertà possibile, pare dire Mario Desiati, ed ha valore catartico necessario. Con dolcezza, con poesia, con profumo di bosco, con tutto ciò che sa di infanzia, di purezza, senza condizionamenti e sovrastrutture, il dolore finisce, si stempera, nello sfumato della nostalgia, perdendo la violenza della vergogna e del silenzio. Tutto si riconcilia. Soprattutto col malbianco che abbiamo dentro. Paure, ossessioni, repressioni. È tempo di liberarsene e di vedere fondali di mare limpidi. Dove vedere se stessi. E sorridere.  Finalmente.

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