Amore, morte e vendetta.
La pioggia di fine estate è implacabile e lava via ogni traccia: ecco perché stavolta la scena del crimine è un enigma indecifrabile. Una sola cosa è chiara: chiunque abbia ucciso la donna, ancora non identificata, l’ha fatto con la cura meticolosa di un chirurgo, usando i propri affilati strumenti per mettere in scena una morte. Perché la morte è uno spettacolo. Lo sa bene, Enrico Mancini. Lui non è un commissario come gli altri. Lui sa nascondere perfettamente i suoi dolori, le sue fragilità. Si è specializzato a Quantico, lui, in crimini seriali. È un duro. Se non fosse per quella inconfessabile debolezza nel posare gli occhi sui poveri corpi vittime della cieca violenza altrui. È uno spettacolo a cui non riesce a riabituarsi. E quell’odore. L’odore dell’inferno, pensa ogni volta. Così, Mancini rifiuta il caso. Rifiuta l’idea stessa che a colpire sia un killer seriale. Anche se il suo istinto, dopo un solo omicidio, ne è certo. E l’istinto di Mancini non sbaglia: è con il secondo omicidio che la città piomba nell’incubo. Messo alle strette, il commissario è costretto ad accettare l’indagine… E accettare anche l’idea che forse non riuscirà a fermare l’omicida prima che il suo disegno si compia. Prima che il killer mostri a tutti – soprattutto a lui – che è così che si uccide.
Mirko Zilahy fino a qualche tempo fa era un nome conosciuto agli addetti ai lavori come editor di note case editrici e come traduttore di grandi autori (uno dei suoi ultimi lavori la traduzione dell’imponente romanzo Il cardellino premio Pulitzer 2014 di Donna Tart). A gennaio 2016 esce il libro che Zilahy, italianissimo a dispetto del nome, aveva nella testa da un sacco di tempo come un ossessione e che prende forma di un thriller ambientato in una Roma cupa e piovosa, che non assomiglia in nessun modo alla Roma dell’iconografia classica turistica, fatta di monumenti ed edifici storici che popolano la città.
I luoghi in cui si muovono i protagonisti del romanzo sono zone oscure, che appartengono ad una archeologia postindustriale come il Gazometro, descritto con una attenzione maniacale in ogni sua parte o il vecchio mattatoio del Testaccio, dove avviene uno dei delitti del serial killer denominato ombra.” La prima delle morti di dio è compiuta. Ma la giustizia vincerà solo quando l’aratro traccerà l’ultimo solco. Lei non mi conosce. Non importa come mi chiamo, sono solo un ombra. “ Questo il testo di una mail che arriva ad un vecchio cronista del Messaggero, ormai in pensione, a cui il misterioso mittente invia dopo ogni omicidio, firmandosi appunto Ombra. Omicidi che appaiono subito enigmi indecifrabili e che lasciano intravedere una cura meticolosa nell’uccidere e nel mettere in scena ogni morte, come pezzi di un puzzle che non si riesce a risolvere. La polizia brancola nel buio, mai vista una cosa del genere da queste parti sottolinea ad un certo punto un commissario del comando di polizia della Garbatella nel descrivere il corpo martoriato della donna rinvenuta sullo sterrato di fianco ad una delle basiliche più importanti di Roma, San Paolo fuori le mura. La questura centrale di Roma decide di coinvolgere un commissario, Enrico Mancini, con un glorioso passato a lavorare nell’Unità per l’Analisi del Crimine Violento, il corso di laurea in Psicologia applicata all’analisi criminale e soprattutto la specializzazione a Quantico, in Virginia, sul criminal profiling. La passione per l’antropologia forense , condivisa con il vecchio docente, facevano di Mancini una figura professionale unica in Italia. Un tempo era orgoglioso di quei titoli. Ma quel tempo apparteneva ad una vita lontana anni luce. E proprio la vita non è stata benevola con il commissario Mancini, e lui si è rifugiato in un commissariato di periferia, abbandonando la carriera di profiler, rifiutando di entrare ancora a contatto con il Male. E all’inizio, al primo omicidio, anche quando il suo istinto di detective gli suggerisce che il corpo martoriato della donna ritrovata vicino alla basilica non sarà l’unico ma solo il primo di una serie, Mancini si oppone alla richiesta del questore di collaborare al caso, di mettere le sue competenze al servizio della Giustizia. Ma l’ombra che si aggira tra le strade di Roma, con la sua forza brutale, commettendo uno dopo l’altro cruenti omicidi rituali, strappa Mancini dal suo isolamento e lo obbliga a confrontarsi di nuovo con la morte e il dolore. E come un eroe antico che deve attraversare mille prove per compiere il proprio destino, anche il commissario Mancini dovrà attraversare questo caso per liberarsi del fardello del proprio passato. E non lo farà da solo ma con una squadra, messa in piedi proprio da lui stesso, che lo aiuterà a decifrare tutti gli indizi al fine di fermare il misterioso assassino. Se e come ci riuscirà lo scoprirete affrontando le 410 pagine di questo viaggio che racconta, come Zilahy stesso afferma nella sua nota d’autore, una storia di amore e morte.
La lettura di questo esordio è stata impegnativa e emozionante: fin dall’inizio la sensazione è stata quella di non avere tra le mani il solito thriller, costruito dagli stereotipi classici detective serial killer omicidi brutali, o perlomeno Zilahy ha preso tutto l’immaginario letterario che ruota attorno al genere e lo ha trasformato in un lungo racconto di una ossessione, con la scelta, non facile, di una scrittura densa non immediata, farcita di dettagli meticolosi e ossessivi nella descrizione dei luoghi in cui si muovono i personaggi principali.
Il suo detective, Enrico Mancini è un uomo profondamente tormentato, in perenne fuga dal presente e collocato in un limbo dove è scomparso il passato in cui era un profiler affermato e felicemente sposato con Marisa, compagna amatissima di una vita. Il suo è un dolore che traspare da ogni gesto, da ogni azione, da cui il detective si protegge indossando dei guanti di pelle marrone che lo immunizzano da qualsiasi contatto fisico.
Mancini si muove come una anima in pena in una Roma descritta come un moderno purgatorio, in cerca di redenzione( o dannazione). Ed proprio su questo equilibrio tra realismo dell’ambientazione e le ombre oniriche della vicenda che l’autore gioca, intenzionato a trasformare il tormento interiore del protagonista in uno dei motori della storia. Ma del resto è proprio questo che rende È così che si uccide un romanzo che esce dalla definizione stretta di genere, il romanzo thriller. E’ prima di tutto letteratura, quella letteratura dove la narrazione si fa cosmica, totalizzante. Una letteratura in cui una vicenda individuale viene a sorpresa inquadrata in un contesto universale. Il tutto con sapienza ritmica e strutturale e tanta consapevolezza stilistica e linguistica, che possono spiazzare quei lettori abituati a opere più rapide e semplici. Ma del resto questo romanzo, scrive Zilahy a storia conclusa, è la sua vendetta, la sola che è stato capace di compiere. L’unica necessaria.
Musica consigliata: Le atmosfere di E così che si uccide con le descrizioni di una Roma cupa, sommersa dalla pioggia, mi hanno fatto pensare alle atmosfere oniriche di True Detective e alla colonna sonora della prima stagione, Far From Any Road eseguita da The Handsome Family. Se vogliamo restare in casa nostra Cosa mi manchi a fare di Calcutta, che non è romano ma di Latina e interpreta perfettamente la disperazione e il disagio che permane nel personaggio del commissario Mancini creato da Zilahy.
Editore: Longanesi
Anno: 2016