IL LIBRO DI APRILE 2024
di ANTONIA DEL SAMBRO
Mentiva, e sperò che il vecchio squalo non se ne fosse accorto…Si sa, il denaro rubato non ha padroni, appartiene a chi l’arraffa.
Il ritorno in libreria di Massimo Carlotto è segnato da un noir fuori da ogni schema fino a oggi presente nella nostra narrativa di genere. I piani su cui si sviluppa sono molteplici e all’interno di Trudy ci potrebbero essere almeno altri quattro prequel e altrettanti sequel. E questo perché ognuno dei personaggi presentati si presta a infinite altre storie; storie che nessuno vuole raccontare, perché troppo complicate, sensibili direbbe qualcuno, scomode si potrebbe dire in sintesi. Ora, se Trudy non fosse un noir (e in realtà ne ha tutte le caratteristiche, dall’aspetto sociale a quello della spy story) potrebbe tranquillamente essere definito un horror perché fa paura, ma paura davvero. Di quella paura che non scaturisce dagli effetti speciali della fiction, se pur letteraria, o da mostri sanguinari o creature possedute dal male, no, no, questo romanzo fa paura perché chi lo legge intuisce e apprende che quello che viene narrato è tutto vero. E non può far a meno di chiedersi: Caspita, ma in che mondo viviamo! E quando la realtà, soprattutto quella quotidiana, si trasforma in un incubo e persone comuni vengono prese di mira da creature del Male in carne e ossa e dall’aspetto assolutamente umano, allora il panico è vero. C’è una sensazione, un feeling, una consapevolezza che accompagna il lettore di Trudy in ogni pagina, qualcosa di non detto eppure assolutamente percepibile: Massimo Carlotto questa storia la voleva raccontare a tutti i costi! C’è lui, in ogni pagina, in ogni capoverso, in ogni riflessione e dialogo dei protagonisti. C’è l’uomo, più che lo scrittore, che continua a non arrendersi e a usare la scrittura per farci aprire gli occhi. Poi, certo, Carlotto scrive stupendamente e questa cosa per un autore è di fondamentale importanza, ma dietro ogni suo scritto c’è l’uomo che ha fatto della sua poetica una perenne denuncia di un sistema in cui la società contemporanea è pericolosamente e irrimediabilmente immersa.
INTERVISTA
Massimo con questo romanzo il lettore apre un po’ gli occhi su un mondo del tutto sconosciuto ai più come le agenzie di security e scopre tante cose: che il più delle volte a gestirle o fondarle sono ex appartenenti alle Forze dell’Ordine, che da esse si diramano infinte altre società satelliti, che possono diventare un rifugio per cani sciolti da utilizzare per le dinamiche più particolari. Eppure nessuno fino a ora sembra essersi posto il problema, soprattutto in Italia. Perché?
Per la capacità o bravura che hanno a essere tanto visibili quanto poco attraenti a livello di curiosità generale. Basta considerare le immagini che ci riportano i media. Si vede quel tale politico o dirigente aziendale o personaggio famoso sbarcare in altri paesi o partecipare a eventi o forum internazionali importanti e continuamente essere accompagnato da uomini o gruppi di persone incaricati della sua incolumità. Sono immagini pubbliche, che tutti guardano senza vedere realmente, senza mai interrogarsi su chi siano sul serio quelle persone, che regole di ingaggio hanno, fino a che punto possono intervenire? Questa è una che dovrebbe indubbiamente far riflettere.
Ludovica Baroni è una protagonista molte forte, molto strutturata e che lascia a tratti anche perplessi, come se fosse quasi anaffettiva, incapace di una certa emotività femminile. Quanto hai scritto di lei durante la stesura del romanzo?
Un quaderno intero pieno. Ludovica si è meritata molto della mia attenzione. Però non sono d’accordo sul suo essere anaffettiva. È solo una donna che cerca di sopravvivere. Di sopravvivere in un mondo di uomini, in generale, e in un mondo di uomini che hanno preso di mira esattamente lei. In queste condizioni ci si deve proteggere per non soccombere. È necessario essere come Ludovica per non farsi annientare.
Ancora una volta la provincia la fa da padrona nella tua scelta di ambientazione. La preferirai sempre alla grande città?
Ma certo. Non c’è paragone! Molto di quello che succede nelle grandi città passa quasi inosservato. Nella grande città ci si distrae, ci si perde, si viene sopraffatti da infiniti stimoli o accadimenti. La provincia ha, invece, un potenziale enorme non solo come ambientazione letteraria ma proprio come vissuto. Sono diverse le dinamiche, sono particolari le tempistiche, sono differenti i rapporti interpersonali. In provincia non sfugge nulla, al limite si fa finta di niente. Ad esempio io tra qualche ora mi vedo con i miei amici per l’aperitivo e parleremo tra noi esclusivamente in dialetto, questo per dire che si creano rapporti di confidenza, di complicità, di rivelazioni reciproche. Un noir ha bisogno esattamente di questo: dell’enorme potenziale che può fornire la provincia.