STORIE DI FAMIGLIE ORDINARIE, STRAODINARIAMENTE RACCONTATE DALLA LÄCKBERG
Mentre al di là dei vetri spalancati sul buio esplodono le girandole dei fuochi d’artificio e Stoccolma si accinge a festeggiare la notte dell’ultimo dell’anno, quattro adolescenti altoborghesi, amici fin da bambini – Max, Martina, Anton e Liv – trascorrono insieme a casa di Max le ultime sei ore che li separano dal nuovo anno. Da soli, o quasi: appena al di là del prato, le rispettive coppie di genitori sono anche loro a una festa, stavolta nella bella villa dei genitori di Anton, con la sua scenografica terrazza protesa nel vuoto. E affacciandosi alla finestra i figli possono vederli…
Comincia così Il gioco della notte, l’ultimo romanzo di Camilla Läckberg. Fin da subito centrato sul distopico gioco delle parti messo in scena dalle quattro famiglie (Martina ama Max che è attratto da Liv, amata da Anton; il padre di Martina ha una relazione con la madre di Anton; il padre di Anton è in bancarotta, quello di Max un dispotico padre padrone; la madre di Martina è un’alcolizzata, quella di Liv assente…), Il gioco della notte mette in scena il potenziale venefico della borghese normalità.
Con i suoi rituali – quella moscissima festa di Capodanno tra adulti irrisolti, bugiardi e infelici, che agli occhi dei figli appaiono patetici; quegli interni lussuosi, curati, un misto di classici del design e pezzi di famiglia da far schiattare d’invidia una casa d’aste, palesemente pensati per far colpo sui visitatori; quei regali d’effetto e insinceri, il Rolex che Martina si compra da sola per il suo compleanno, il Quad lasciato quasi subito a marcire in garage… – e le sue fragilità, l’ipocrisia e il fasto, l’eleganza e il disordine, la brutalità e lo charme, la bonomia superficiale e la profonda malvagità.
Martina sente d’aver perso Max; Martina la cazzo di principessa di Skuru, Martina la vincente, quella con cui tutti volevano parlare alle feste, a un certo punto è stata spodestata da Liv, un tempo timidissima e silenziosa (mentre adesso in lei c’è “qualcosa di danneggiato, ma anche eccitante”). La madre di Martina beve, e quando beve è cattiva: con Martina, e con la piccola Adrienne, la sorellina minore. Il papà di Martina ha una relazione nemmeno troppo segreta con la madre di Anton, il cui padre è a un passo dal tracollo economico: quei suoi pilastri ammalorati – che non ha i mezzi per risanare – sostengono sempre più precariamente la terrazza sospesa sulle acque gelide dello Stretto. Max è all’apparenza il leader del piccolo gruppo: dominante nel rapporto con Anton, che con lui si comporta spesso da giullare di corte (le volgari prese in giro rivolte a Liv, il rimborso preteso dal fattorino che porta le pizze in ritardo…). Anton è innamorato di Liv ma sente che tra lei e Max comincia a esserci qualcosa – o forse qualcosa c’è persino già stato – e non sa bene come reagire; al pari della stessa Martina, la fidanzata in carica, pure lei gelosa dei due. A Liv Max piace, ma non pensa di poter competere con Martina, cui del resto vuol bene.
Liv ha da poco affittato all’insaputa dei genitori un piccolo appartamento dove starsene da sola, fingendo d’avere una vita normale: con i compiti, i libri, i pomeriggi davanti alla televisione. Quattro anni prima è stata violentata da un uomo di cui si fidava abbastanza da accettare senza problemi un passaggio per tornare a casa, e da non protestare né allarmarsi quando lui ha deviato all’improvviso per una commissione, imboccando una stradina serpeggiante nel bosco. Quest’uomo è adesso presente, con gli altri invitati, alla festa nella villa con i pilastri marci; e Liv può vederlo affacciandosi alla finestra.
Come gli altri figli, tutti più grandi e da tempo fuori casa, fin dall’infanzia Max è stato sistematicamente picchiato dal padre: finché il maggiore, Johan, non s’è ribellato prendendolo a pugni (“Era come se di punto in bianco non fosse più riuscito a tenersi dentro tutta la loro infanzia”) e andandosene poi di casa nella chiara serata estiva. Adesso Johan vive a Londra, e lui e sua moglie stanno per avere una bambina: una gioia per Max, cui il fratello ha comunicato la notizia quella stessa sera, ma anche un piccolo dolore, il morso della gelosia…
Sia Max che Liv hanno madri assenti o comunque impotenti, incapaci di proteggerli dalla violenza: Max viene picchiato, la madre finge di non sapere; Liv viene stuprata, la madre finge di non sapere (“La cosa che le fa più male è che sua madre sa tutto, ma finge di non sapere. Con il passare del tempo, è diventato sempre più evidente. Come si può tradire così una figlia?”). E Liv ogni tanto a chi glielo chiede risponde che sua madre è morta. L’ha detto anche qualche ora prima, al tassista che è passato a prenderla nel suo rifugio, leccandosi le labbra quand’è comparsa sulla soglia… Mentre Anton e Martina hanno delle famiglie apparentemente perfette percorse da crepe profonde: il padre di Anton è sull’orlo della bancarotta, la madre di Anton va a letto col padre di Martina, la madre di Martina è un’alcolizzata violenta e crudele.
Pur conoscendosi praticamente da sempre (cene, vacanze, scuola di equitazione, lezioni di golf, sempre insieme), da sempre i quattro ragazzi tacciono e fingono. Con i puntigliosi selfie di Martina (le gambe una un po’ più avanti dell’altra così sembrano più sottili), che ci tiene all’apparenza e a volte ha pretese che appaiono assurde ai suoi stessi occhi; ha letto su Internet – ma piuttosto che confessarlo preferirebbe morire – che l’ossessione per il controllo dello spazio è tipica dei figli di alcolisti: una volta adulti, compensano col maniacale controllo esercitato sul proprio ambiente la sensazione di totale precarietà vissuta da bambini.
Il farfallino slacciato di Max e quel suo farsi tagliare i capelli a casaccio, per gioco (tra l’altro proprio da Anton e Liv, gli usurpatori armati di rasoio…), la sconcertano; e la primissima forma di consolazione rivolta all’amica che è appena scoppiata in lacrime – all’apparenza senza un perché – è quel vuoi rifarti il trucco? ansiosamente somministrato un po’ come un presidio di primo soccorso; e infatti a Liv di fronte a quella domanda viene da sorridere, da sempre la più grande preoccupazione di Martina è che si senta brutta e il suo primo pensiero è salvare le apparenze (potrebbe odiarla per questo, invece le dà un buffetto sulla mano e scuote la testa).
Rifarsi il trucco, dire battutacce, mentire, schivare, continuare a giocare: trucchi diversi per un unico effetto, rinsaldare le vacillanti barriere dell’io, chiudendo il coperchio su ciò che ribolle e separando quel che è nascosto da ciò che si può portare alla luce…
Finché Liv non scova su uno scaffale una vecchia scatola del Monopoli e decide di passar la serata facendo una partita, Obbligo o Verità a sostituire i finti soldi di carta o le tradizionali penitenze. Lo decide da sola, senza chiedere il parere degli altri e iniziando a disporre il tabellone e i segnalini sul tavolino davanti al divano; zitta zitta e un po’ in disparte, come una giovane strega concentrata sul suo incantesimo (“Senza dire niente a nessuno, lo prende, va a sedersi sul divano e inizia a disporre sul tavolino il tabellone e i segnalini argentati…”, davvero qui il racconto ha i toni della fiaba). Un incantesimo destinato a dissolvere la gabbia di menzogne che imprigiona i quattro da sempre: “Mentono tutti. Fingono che vada alla stragrande. E invece non va bene un cazzo”, dice Max ad Anton. E Liv: “Eravamo i più rovinati. Perfetti e funzionanti all’esterno, ma tristi e danneggiati qui dentro”.
E così come Liv ha spodestato la giovane regina Martina – pur non volendolo, non rendendosene neppure conto – sul finale il giullare Anton passerà al comando relegando sullo sfondo il sovrano Max: pianificando nei dettagli e mettendo poi in atto con l’aiuto degli altri tre quel piano di fuga destinato a restituirli alla loro stessa esistenza.
Il libro della Läckberg sembra frutto di un sogno, un’allegoria da fiaba. Con quel castello proteso sulle rocce che affiorano dalle acque gelide, i quattro giovani principi, i lupi in agguato nel bosco; e quei sovrani stanchi, bolsi, vecchi, alla deriva ormai dagli altri e da sé stessi: che tuttavia ci sono e pretendono il rispetto, l’osservanza delle prerogative. Col bando senza appello comminato a Johan, il principe ribelle, nell’assoluta mancanza di reazioni del resto della famiglia, usa a piegarsi ai capricci del dispotico sovrano, a quel potere di vita o di morte esercitato sui figli come sulla silenziosa regina…
E quella donnina sconosciuta, misteriosa, piccola e tonda come una mamma della pubblicità delle torte, quella fata benefica sopraggiunta d’un tratto a trarre in salvo la principessa in difficoltà; e l’appartamento di Gärdet affittato di nascosto, torre incantata che invece di tenerla prigioniera la protegge e la salva, regalandole la concentrazione indispensabile a mettere in atto i suoi magici rituali di libertà: “Me ne sto in pace. Disegno, leggo, guardo serie tv. A volte la sera vado in qualche ristorante per stare sola in mezzo agli altri”. Celebrando la possibilità di una normalità trionfante, per quanto ancora fugace, che forse, come un ospite a lungo corteggiato e finalmente accolto, un giorno deciderà di fermarsi per sempre.
Traduzione: Catia De Marco
Il gioco della notte
STORIE DI FAMIGLIE ORDINARIE, STRAODINARIAMENTE RACCONTATE DALLA LÄCKBERG Mentre al di là dei vetri spalancati sul buio esplodono le girandole dei fuochi d'artificio e Stoccolma si accinge a ...