
L’ERA DELLA VANITA’
di MIRKO TONDI
Qualche mese fa, poco dopo l’uscita di uno di questi editoriali domenicali, un autore che non conoscevo mi ha contattato in privato per sottopormi il suo romanzo giallo per una recensione, non mancando di sottolineare come la sua opera avesse stupito gli esperti e rimarcando il fatto che (secondo lui) non si trovasse in giro niente del genere.
Gli dissi che scrivevo editoriali ma non trattavano in maniera specifica il genere giallo, e in ogni caso non mi occupavo di recensioni. Il mese successivo, all’uscita del nuovo editoriale, ci riprovò, sostenendo che siccome scrivevo per La bottega del Giallo, a quel punto potevo anche scrivere qualcosa sui suoi libri.
Declinai gentilmente l’offerta, ribadendo che non mi interessava. L’episodio in ogni caso mi ha ricollegato al passato, all’epoca in cui avevo partecipato alla nascita di un’agenzia letteraria e, qualche tempo dopo, di un collettivo di scrittori: nel primo caso, circa i tre quarti degli autori che mi contattavano erano assolutamente sicuri di aver scritto dei libri indispensabili, storie che secondo loro le persone avrebbero dovuto leggere al più presto; nel secondo, invece, in occasione di reading e presentazioni, ci si poteva accorgere di come la maggior parte dei presenti fosse interessata più a proporre sé stessi che ad ascoltare gli altri.
Ma ho ripensato anche a quando io stesso, accecato dalla vanità, dopo aver scritto un romanzo in nemmeno due mesi ebbi la convinzione che potesse essere persino un capolavoro, meravigliandomi che non fosse preso in considerazione da concorsi letterari ed editori. In realtà impiegai almeno sette anni per rimetterlo a posto, arrivare a una stesura decente, per poi autopubblicarlo online e avere pure la presunzione che con qualche inserzione pubblicitaria potesse vendere qualche copia. Niente di più sbagliato. Nel mio caso, almeno, ebbi l’impressione che il libro non esistesse nemmeno, che se non ci fosse stata quella copia stampata on demand che conservavo a casa, potesse addirittura ritenersi qualcosa di astratto, solo un titolo leggibile sullo schermo di un dispositivo.
Ormai da diversi anni il mercato del self publishing è sponsorizzato con fierezza da tutta una schiera di scrittori (o presunti tali) che si mostrano avvelenati con l’editoria tradizionale colpevole di non aver riconosciuto il loro valore, seminando nei social post agguerriti nei quali esprimono tutto il loro risentimento per non essere stati compresi, mentre lì, nell’immenso mare del web, hanno trovato finalmente la loro dimensione. Certo non è infrequente che gli editori “veri” vadano a reclutare autori capaci di vendere migliaia di copie partendo dall’autopubblicazione su Amazon o fenomeni che hanno conquistato il mondo cominciando su Wattpad.
Ed è vero anche che gli editori spesso investono soldi per campagne pubblicitarie rispetto a libri che già vendono, facendo cadere nel dimenticatoio tanti autori sconosciuti di cui non abbiamo mai ricevuto notizia; per quest’ultimi, considerata la paradossale immobilità di chi all’inizio aveva creduto in loro offrendogli un contratto, esiste sempre la possibilità di cavarsela da soli, sperando magari di avere buone doti organizzative, essere abili nelle relazioni pubbliche o minimamente intraprendenti nel proporsi e farsi conoscere.
Un meccanismo che alimenta il narcisismo, già largamente diffuso; narcisismo qualche volta travestito da falsa modestia, l’umiltà che in breve tempo fa posto al protagonismo. E infine ci sarebbe l’editoria a pagamento, la cui espressione in lingua inglese, non a caso, è proprio Vanity Press. Se vi può consolare, si sa che non è una tendenza appannaggio soltanto dell’ambiente della scrittura e dell’editoria, ma riguarda il mondo tutto: proprio mentre sto per chiudere il pezzo, mi raggiunge infatti la notizia che un turista in visita agli Uffizi, nel maldestro tentativo di farsi un selfie, è inciampato e ha danneggiato seriamente il dipinto, sfondando la tela. No, non consola affatto, lo so.