IL RE DEL THRILLER FRANCOFONO TORNA IN LIBRERIA

Ebbene sì, il re del thriller francofono, Franck Thilliez, torna in libreria e torna sempre con i tipi di Fazi. La casa editrice più thriller d’Italia che con i loro romanzi della collana Darkside ci tolgono i respiri e ci incollano alle pagine dei romanzi.

In questa bellissima collana, appunto, hanno visto le stampe due romanzi di Franck Thilliez che ci hanno letteralmente conquistati e hanno conquistato i lettori: “Il manoscritto” e “Il sogno”. Anche la traduzione di “C’era due volte” è curata dalla bravissima Federica Angelini, attenta alle sfumature letterarie e linguistiche che caratterizzano il Thilliez in lingua originale.

Lo scrittore d’oltralpe è molto prolifico, ha al suo attivo una ventina di romanzi, ma la casa editrice Fazi ha deciso d’intraprendere la traduzione dei romanzi autoconclusivi della sua opera omnia. Infatti Thilliez ha una serie fortunatissima con protagonista Sharko, ma parallelamente pubblica anche romanzi con protagonisti nuovi e one-shot. La scrittura di Thilliez è capace di tenere il lettore in suspense per tutta la lunghezza del romanzo, la costruzione dei suoi libri è meccanica e ingegnosa, niente è lasciato al caso. E’ questo il caso di “C’era due volte” , ma eccovi la trama ed un estratto per invogliarvi nel proseguire la lettura.

TRAMA

Nel 2008, in un piccolo paese di montagna, il tenente Gabriel Moscato è alla disperata ricerca della figlia, diciassettenne piena di vita scomparsa da un mese. Uniche tracce la sua bicicletta, i segni di una frenata e poi più nulla. Deciso a indagare sull’hotel due stelle dove la ragazza aveva lavorato l’estate precedente, Moscato si stabilisce nella stanza 29, al secondo piano, per esaminare il registro degli ospiti. Legge attentamente ogni pagina, prima di addormentarsi, esausto dopo settimane di ricerche infruttuose. All’improvviso, viene svegliato da alcuni suoni attutiti. Quando si avvicina alla finestra, si rende conto che piovono uccelli morti. E ora è nella stanza 7, al pianoterra dell’hotel. Si guarda allo specchio e non si riconosce; si reca alla reception, dove apprende che è il 2020 e che sono dodici anni che sua figlia è scomparsa: la memoria gli ha giocato uno scherzo crudele. Quello stesso giorno il corpo di una giovane donna viene trovato sulla riva del fiume Arve…

ESTRATTO

CAPITOLO 1

L ’Hotel de la Falaise si annidava nel punto in cui la Valle dell’Arve si restringe in un imbuto di roccia, tre chilometri a est di Sagas. Dietro l’edificio di quarantasei camere si ergeva una parete di calcare alta centodieci metri dove non batteva mai il sole, neanche in piena estate, e su cui cresceva una vegetazione stentata, all’ombra delle vette grigie e bianche delle Alpi della Savoia. Vi regnava un freddo costante, una colata di aria gelida proveniente dalle cime innevate, in particolare in quell’inizio aprile del 2008 in cui la primavera tardava ad arrivare.
Erano quasi le 23,30 quando il luogotenente Gabriel Moscato si presentò alla reception, un ambiente antiquato con le pareti coperte da una moquette ruvida, color castagna. Una collezione di statuine del presepe disposte su alcune mensole gli dava l’aria di un vecchio albergo poco raccomandabile. Il gendarme conosceva il proprietario del due stelle: Romuald Tanchon aveva offerto un lavoretto estivo a sua figlia per due anni di seguito e le aveva fatto fare un periodo di stage.
I due uomini si strinsero la mano. Era da un po’ che il titolare dell’hotel non vedeva Gabriel Moscato. Infagottato nel parka blu scuro con il bavero alzato fino alle orecchie, l’imponente Moscato – era alto quasi un metro e novanta – sembrava invecchiato di dieci anni. Da quanto tempo non dormiva?
«Mi dispiace per sua figlia», disse Romuald Tanchon. «Spero con tutto il cuore che possiate ritrovarla».
Da un mese Gabriel Moscato si sorbiva frasi del genere a Sagas, un crogiolo di tredicimila abitanti incastrato tra le montagne a colpi di piccone da uno sconosciuto fondatore. A ogni angolo di strada, in ogni negozio in cui metteva piede. Non ne poteva più, ma si sforzò di annuire per educazione. Dopotutto, i suoi interlocutori volevano solo mostrarsi comprensivi.
«Sto girando le strutture dei dintorni di Sagas che ospitano gente di passaggio. Chiedo ai responsabili di fornirmi la lista dei clienti presenti nei giorni in cui mia figlia è scomparsa. Se rifiutano, cosa che posso anche capire, chiamo i colleghi della brigata. Ma così servono diverse pratiche e le cose si complicano. Se invece ce la sbrighiamo subito, sul posto, con tranquillità, ci guadagniamo tutti».
Romuald Tanchon tirò fuori un raccoglitore da un cassetto dietro il bancone.
«Lasciamo stare la privacy. Se posso rendermi utile…».
Lo appoggiò davanti a Gabriel e digitò sulla tastiera del computer.
«Siamo nel 2008, ma ancora non siamo informatizzati al cento per cento. Continuo a prendere le prenotazioni sul mio vecchio registro di carta. C’è scritto tutto: cognome, nome, data di arrivo e di partenza, modalità di pagamento».
Staccò una delle poche chiavi ancora appese al muro. La maggior parte dei forestieri che alloggiavano a Sagas andava a far visita ai detenuti del centro penitenziario alla periferia della città, dove oltre duemila anime soffrivano in condizioni deplorevoli. Lì il turismo era inesistente. Al posto delle stazioni sciistiche c’erano una prigione, un ospedale, un tribunale distrettuale e una gendarmeria.
«Sarò alla reception fino a mezzanotte», aggiunse Tanchon. «Lei può restare nella 29 per tutto il tempo che desidera. Se quando ha finito io me ne sarò già andato, può lasciare la chiave nel cesto e il registro sul bancone».
«Grazie, Romuald».
Le labbra del proprietario si strinsero in un’espressione di inquietudine sotto i grossi baffi neri, dove iniziava a spuntare qualche pelo grigio. I quarant’anni non perdonavano nessuno.
«È il minimo che posso fare. Voglio molto bene a Julie. Cose del genere non dovrebbero mai succedere. Prendete quel bastardo».
Indicò con il pollice una porta alle sue spalle.

«Se ha bisogno di me, suoni pure».
Gabriel salì al secondo piano. C’era odore di legno verniciato e anche di umidità. Dormire in un posto simile avrebbe spinto alla depressione anche il più convinto specialista di psicologia positiva. La finestra della camera 29 si affacciava sulla falesia, che era ad appena una ventina di metri. Per quanto Gabriel si sforzasse di levare lo sguardo al cielo, non vedeva nemmeno lo scintillio di una stella. Solo un’impenetrabile fortezza di buio dietro cui sentiva la figlia urlare.
Trentadue giorni di inferno, e ancora nulla. Quel pomeriggio di un mese prima Julie non era rientrata a casa. Avevano trovato la sua mountain bike il mattino del 9 marzo, il giorno dopo la scomparsa, al limitare del fitto bosco di larici che si slanciava verso le cime. Julie si allenava sulle discese tre volte a settimana per preparare una corsa in programma a luglio a Chamonix. Secondo gli esperti, la ragazza di diciassette anni aveva frenato in modo brusco, in un punto collocato a una cinquantina di metri da un parcheggio ricoperto di ghiaino, tra Sagas e Albion. La bici era appoggiata a un albero, dove finivano i segni della frenata.
I cani da pastore belgi della brigata cinofila avevano perso le sue tracce all’altezza del parcheggio. Lei, la semplice figlia di un gendarme e di un’infermiera a domicilio. Una ragazzina di montagna, appassionata di scacchi, natura e cinema, con la macchina fotografica, analogica o digitale, sempre in mano. Il bosco, i fianchi scoscesi, gli altopiani erano stati setacciati da decine di agenti a piedi e dagli elicotteri. I sub avevano perlustrato il letto del fiume, esaminando ogni ostacolo, ceppo, tronco d’albero, ferraglia che avrebbe potuto trattenere un corpo alla deriva.
Oltre alle ricerche sul campo, un gruppo di sei gendarmi – compreso Gabriel – interrogava gli amici e i compagni di scuola di Julie. Ricostruivano gli spostamenti, raccoglievano le riprese delle videocamere di sorveglianza, analizzavano i dati telefonici. La sera, nel tempo libero, quando gli altri tornavano alle loro famiglie, Gabriel batteva da solo gli affittacamere, gli alberghi, gli hotel. Convocava i gestori o recuperava elenchi che poi ricopiava sul proprio taccuino. Il rapitore, ammesso che esistesse, forse era una persona del posto, uno che viveva nel bosco o in un alpeggio, ma poteva anche essere un viaggiatore opportunista. Non bisognava trascurare nessuna pista.
La camera 29 era spartana. Una sedia senza tavolo, un telefono con i fili, tende scure, un bagno ridicolmente piccolo con doccia e gabinetto insieme. Niente TV , ma il minibar era ben rifornito di alcolici. Julie aveva preparato le colazioni in quella struttura, pulito quella vecchia moquette. Gabriel la immaginava a impilare lenzuola e asciugamani. Non il miglior lavoro del mondo, ma era riuscita a risparmiare abbastanza per comprarsi la fotocamera digitale. La quale era stata peraltro repertoriata come prova per il caso due settimane prima: Gabriel non era stato in grado di mettere le mani sulla memory card, che non era più nell’apparecchio. Forse un dettaglio inutile: perché Julie poteva averla smarrita, o averla buttata via perché si era danneggiata. Restava il fatto che non c’era e la cosa di per sé meritava di essere messa in evidenza. Nei casi di scomparsa, la minima anomalia poteva essere oggetto di interpretazione. Ogni ipotesi ne richiamava un’altra, richiedeva tempo, soldi e risorse umane.
Gabriel Moscato tirò le tende, si sedette sul letto, si tolse gli anfibi con un sospiro di sollievo. Il mignolo destro gli sanguinava per tutte le volte che aveva fatto su e giù per Sagas. Mandò un messaggio a sua moglie per avvertirla che avrebbe fatto tardi. Ma lei non l’avrebbe sicuramente letto, intontita com’era dagli antidepressivi.
Guardò il minibar con bramosia, ma ritenne saggio non bere quella sera. Sfinito, si premette i globi oculari con i pollici, poi aprì il registro al 5 marzo, tre giorni prima del dramma. Annotò scrupolosamente ogni identità registrata in quelle settantadue ore che in seguito avrebbe passato al setaccio e infine contattato, se necessario. Un lavoro da formichina, ingrato, ma inevitabile.
«Ti ritroverò, Julie. Ti giuro che ti ritroverò».
Dov’era sua figlia? Perché quella frenata in discesa, cinquanta metri prima del parcheggio? Aveva incontrato qualcuno che conosceva? Avevano lanciato il suo cadavere imbottito di sassi in fondo a un lago, o la tenevano prigioniera in una squallida cantina a centinaia di chilometri di distanza? Gabriel sapeva quante persone scomparse venivano denunciate ogni anno. Un numero impressionante. Il tempo assassino, che piega la volontà e uccide le speranze, anche le più solide. Nel corso dei mesi o degli anni, la figlia si sarebbe forse ridotta a un nome gridato un giorno tra le montagne.
Dopo aver riempito tre pagine, si sentì molto affaticato. Nonostante lo sforzo per resistere, alla fine si stese sul copriletto e pianse, come quasi ogni sera, talvolta stretto a sua moglie, altre rannicchiato in un angolo.
Pensiamo così tanto ai nostri figli quando li abbiamo con noi? Li amiamo così tanto quando sono presenti? Gabriel non sapeva rispondere, la sua vita di prima non esisteva già più. Quella futura sarebbe stata solo un calvario. Qualunque fosse stato l’esito delle ricerche, le loro vite sarebbero state trasformate per sempre, stritolate, prosciugate dalle troppe lacrime versate. Chiuse gli occhi sulla tristezza dei giorni appena trascorsi.
Li riaprì quando fu svegliato da un rumore sordo. Qualcosa aveva urtato il vetro della finestra.
Gabriel si alzò barcollando, gli girava la testa. Si trascinò fino a una porta-finestra semiaperta. Cosa gli succedeva? La aprì e uscì senza capire – secondo logica, al secondo piano non ci sarebbero dovute essere porte che davano sull’esterno – e si ritrovò sull’asfalto del parcheggio dietro l’albergo.
All’improvviso un dolore gli trapanò la spalla sinistra. L’uccello che l’aveva colpito si schiantò ai suoi piedi, con il becco giallo socchiuso. Gabriel non riusciva a spiegarsi ciò che vedeva. Poco più in là c’era un altro volatile, un misero sacco di piume.
Colpi violenti fecero improvvisamente rimbombare le lamiere delle auto, le tegole dei tetti. La gente imbacuccata negli accappatoi sbucava dalle rispettive stanze, con i volti assonnati rivolti al cielo. Dalle tenebre spuntavano razzi neri e compatti che andavano a schiantarsi con un tonfo di carne stritolata. Gabriel tornò dentro la camera per cercare riparo, frastornato, mentre il vicino in pigiama sbraitava: «Ha visto? Ha visto? È l’apocalisse!».
Sì, Gabriel aveva visto. Certo che aveva visto.
Piovevano uccelli morti.

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