Camera chiusa n. 13

Camera chiusa n. 13

A New York, la giovane vedova Lily Constable, ancora bella e molto ricca, incontra in un salotto mondano l’affascinante Earl Rumney, editore d’un importante testata, e travolta dalla passione lo sposa trasferendosi con lui a Lebanon Falls, l’imponente dimora di famiglia situata in una piccola città di provincia.

Ma ben presto la situazione precipita: a Lebanon ci sono infatti Aderic, il figlio di primo letto del marito, ragazzo problematico deciso a non lasciare il minimo spiraglio alla nuova moglie del padre; la sorella di questi, Diane, a sua volta solo freddamente cortese e per nulla ospitale; il marito di lei, il bisbetico Silas, e svariati altri personaggi difficili e difficilmente definibili come famiglia.

Ma soprattutto Lily scopre che Earl indulge a un’angosciante passione, divertendosi a collezionare stanze dove sono avvenute atrocità e delitti celebri, riproducendole di tasca propria fin nei minimi particolari e, una volta completate, mostrandole con orgoglio ad amici e conoscenti durante affollatissime visite guidate.

Tutte tranne l’ultima, la numero 13, che nessuno ha visto né dovrà mai visitare…

Questa la storia di Camera chiusa n. 13, magnifico romanzo di Rufus King edito nel 1946 da cui il regista Fritz Lang trarrà nel ’48, per la Universal, un altrettanto intenso Dietro la porta chiusa.

Come si vede, si tratta d’uno dei non pochi film che in questi anni esplorano il tema del rimosso e del disagio psichico legato a traumi in genere infantili:Quando Lang dirige il film, Hollywood impazzisce letteralmente per la psicanalisi-digest. Ogni grossa casa produttrice vuole il suo capolavoro in tal senso… ma tutti sono battuti da quel mago del brivido che è Hitch…”, G. Turroni).

Diverse, e di diversa importanza, le infedeltà da libro a film.

Cambia un po’ Lily, interpretata nel film da una Joan Bennet graziosa come una statuina di biscuit e apparentemente altrettanto fragile, che nei panni di Celia Lamphere abbandona in parte il candore ingenuo e l’atteggiamento stupefatto del romanzo per adottare i modi più disinvolti e la voce ben temperata di quell’habitué del gran mondo che in effetti è, per nascita e per matrimonio: “È come una prugna candita e senza nocciolo” dirà di lei Leona, l’insopportabile guru della carta stampata che nel libro viaggia con Lily fino a Lebanon Falls avendo quindi modo di farsene un’idea, per quanto sbrigativa e incrinata dalla gelosia e dall’autocompiacimento.

Significativo, in questo senso, lo scambio tra Celia e la cognata Caroline – una mascolina, autoritaria Anne Revere, che veste con efficace aderenza i panni della Diane romanzesca pur nel diverso ruolo strategico riservatole dal regista – cui la prima, quasi aggiustandosi distrattamente sul nasino gli occhiali firmati, demanda in un batter d’occhio la cura dell’immensa e complicatissima nuova casa, che del resto l’altra ha sempre gestito in orgogliosa autonomia…

Nel romanzo, invece, la delicata questione appare irrisolta, ripromettendosi Lily di prendere in mano il governo di Lebanon Falls il prima possibile, sì, ma venendone poi distolta dall’angoscioso accavallarsi degli eventi.

Cambia poi lui, il protagonista maschile e fresco sposo della giovane donna, che da Earl Rumney diventa Mark Lamphere e scuro e latino nel libro ha nel film gli occhi chiari e l’aspetto da inglese medio d’un Michael Redgrave un po’ appesantito, il cui sguardo periodicamente vacuo ben si presta a suggerire l’idea d’un ricorrente disturbo psichico.

E scompaiono alcuni dei personaggi più interessanti del romanzo: prima fra tutti forse Leona, la giornalista aggressiva e frustrata che Earl coinvolge nella direzione del suo giornale facendo leva sul proprio fascino magnetico; e poi il simpatico e acuto psichiatra newyorchese Lawrence Russack, che Lily incontra alla festa d’addio data in suo onore dall’amica Minnie e che per primo avverte l’esigenza di suscitare nella donna un senso, per quanto embrionale, d’allarme di fronte alla macabra  collezione di stanze con cui si diletta il marito…

E naturalmente anche il bonario e coraggioso Hubert Coache, il distinto e non troppo fascinoso funzionario di banca da sempre innamorato di Lily, deve scomparire, in omaggio al diverso finale adottato da Lang, che stravolge l’esito del romanzo cancellando, appunto con la soppressione di Coache, l’intervento del cavaliere errante pronto ad accorrere in soccorso della dama: che nel film si salva da sola, recuperando al contempo marito e matrimonio e spazzando via fantasmi e creature maligne; il tutto senza deflettere dalla propria sostanziale, inalterabile dolcezza di bimba smarrita.

Si veda la drammatica scena finale, in cui una Joan Bennet “dagli occhi di colomba” (G. Turroni) incalza un inquietante, sconnesso Michael Redgrave mentre questi giocherella distratto col laccio di seta che ha causato la morte per strangolamento d’una giovane donna (la ricostruzione del delitto in questione, perfetta in tutti i dettagli, fa parte appunto d’una delle stanze della collezione), costringendolo a confrontarsi col proprio rimosso e scalpellando via, infine, il ricordo traumatico cui il marito deve il suo precario equilibrio psichico.

Del tutto assente è anche Silas Goff, l’irascibile ed esasperato marito di Diane e cognato di Earl, cui le dissennate scelte editoriali di quest’ultimo stanno rovinando il fegato e che, in uno dei confronti più divertenti del libro, invano tenterà di “destare negli occhi turbati di quella giovane donna una scintilla di comprensione”: suscitando da parte di Lily soltanto il banale ricorso al consueto luogo comune del burbero benefico, che la donna gli propina tra una fetta di pane tostato e un sorso di caffè e che l’altro accoglie in un granitico, disperato silenzio.

E scompare anche il geniale compositore Dillon Sobolenski, l’altra celebrità ospitata a Lebanon Falls assieme a Leona, il quale a sua volta, temendo che quest’ultima possa manovrare per buttarlo fuori da quel comodo nido (“Due celebrità erano troppe nella stessa casa”) si premurerà di spezzare il gelido riserbo che oppone alle interferenze del mondo per impetrare, a sua volta, l’attenzione d’una Lily sempre più confusa: facendole velatamente balenare il sospetto che tra il marito e la giornalista ci possa essere ben più che una semplice collaborazione d’affari…

Fedele è invece il personaggio del figlio di Earl, un Aderic quindicenne – David nel film – ugualmente attraente, altezzoso e gelidamente educato sia nel libro che nel lungometraggio e ugualmente deciso a respingere qualunque offerta d’amicizia da parte della nuova moglie del padre; e fedele al romanzo – benché forse appena più intensa e chiaroscurale – è anche Zelma McQuillan, miss Roney nel film, la segretaria innamorata del principale che gli ha salvato il figlio sacrificando la propria bellezza.

Scoppiato un incendio quando Aderic era ancora piccolo, la donna è infatti riuscita a sottrarlo alle fiamme, che l’hanno però sfigurata e costretta, in seguito, a nascondere parte del viso sotto una morbida sciarpetta di chiffon

…And the winner is: il libro vince per stile e approfondimento psicologico dei personaggi, anche se il film rende Lily a tratti più credibile e ha un’atmosfera di notevole suggestione