Il delitto di Agora

Il delitto di Agora

LA REALTA’ SI TINGE DI FINZIONE LETTERARIA NELLE MANI DI PENNACCHI

Agora, “un paesaccio che sta sulla montagna” a un passo da Roma, domenica 25 febbraio 1996. Tra la camera da letto e il bagno dell’appartamento di Emanuele Ferraro vengono ritrovati i corpi di Emanuele stesso, detto il napoletano, 23 anni, bassino, attraente, un passato difficile, in paese da un anno appena; e della sua ragazza, Loredana Proietti, 17 anni, “la più bella del paese”, figlia d’un maresciallo dei carabinieri in pensione, capelli neri, anzi quasi blu, slanciata, estroversa, brava a scuola, corteggiata, desiderata. I due sono stati uccisi a coltellate: 60 lui, 124 lei.

In casa, l’appartamento che Emanuele ha affittato una volta trasferitosi ad Agora, una casetta a due piani come molte vecchie case di queste parti – ingresso e cucinotto al pianterreno, dove un tempo c’erano la cantina o la rimessa o la stalla, camera da letto e bagno di sopra, a volte uniti solo da una scala a chiocciola – non ci sono tracce di sangue eccetto quelle, neanche troppo copiose, delle vittime. Eppure, un omicidio perpetrato con furia – una furia così selvaggia e totalizzante, una Nuvola rossa come recita il titolo della prima versione del libro, uscita nel ’98 per i tipi della Donzelli e oggi rivista e rielaborata dall’autore – sembrerebbe giustificarne molto di più.

E molto dovrebbe essercene stato, anche, sui vestiti e sulle mani dell’assassino: uno soltanto, su questo concordano un po’ tutti. Che dovrebbe, pure, aver lasciato qualche traccia. Invece di tracce non ce ne sono, dicono i periti: né in casa di Emanuele, né altrove.

In paese, su chi sia l’assassino dei due ragazzi le opinioni divergono, viziate da maldicenze, timori, gelosie. E le indagini, incalzate e intralciate dall’immenso clamore suscitato dal caso, prendono, da subito, una piega anch’essa sbagliata, viziata, frettolosa. Alla fine, se pure ci sarà un colpevole sembrerà, pure lui, quello sbagliato.

Cambiando i nomi e i luoghi – l’omicidio dei due ragazzi, i fidanzatini di Cori, avvenne appunto a Cori, sempre da queste parti, e non ad Agora – l’autore riscrive un pasticciaccio di cronaca nera: quello che vide morire per mano d’ignoti Patrizio Bovi, 23 anni, ed Elisa Marafini, 17, Emanuele e Loredana nel romanzo di Pennacchi. Che questo libro non lo voleva fare, non essendo, lui dice, materia sua la cronaca nera, il thriller, il buio: lui, quando la moglie lo costringe a vedere qualche film sul genere, chiude gli occhi, se no s’impressiona.

Ma poi un amico testardo gli ha fatto leggere gli atti del processo. E lui, volente o nolente, è rimasto invischiato nella storia. Storia che si svolge nelle sue terre (Pennacchi vive a Latina), quei monti Lepini “che spuntano dalla pianura all’improvviso: rocciosi, erti, assolutamente non digradanti. Sbucano di botto – alla traditora… Noi stiamo nella pianura e i Lepini li abbiamo sempre considerati un corpo estraneo. Anche se quelli della montagna pensano invece esattamente il contrario: il corpo estraneo saremmo noi. Anzi, un vero e proprio tumore”.

Importati con le tradotte soprattutto dal Veneto e in parte dall’Emilia negli anni della bonifica delle paludi pontine, i coloni del nordest sono rimasti qua: loro e i loro figli, nipoti e pronipoti.

È un pezzo di Valpadana: dove sembra che parliamo il romanesco, ma a pensare e sognare si continua in veneto. Noi non ci siamo mai sentiti del Lazio. Il Lazio è Sud. Alieno. Dopo quasi novant’anni, noi siamo ancora Wasp e la Liga Veneta disse chiaro e tondo – quando voleva ancora la secessione e la Padania libera e indipendente – che noi ne avremmo fatto parte. Non Italia, ma Padania. Eravamo cetnici e saremmo stati un’enclave, libera e indipendente come la repubblica di San Marino. Ma solo noi della pianura, però. Non i monti Lepini. Noi Wasp. Loro Apache.

Emanuele e Loredana vengono massacrati qua, tra queste montagne di roccia calcarea che offrirono asilo a Saturno in fuga dal figlio Giove: l’unico, scrive Pennacchi, che la madre Rea fosse riuscita a salvare dalla voracità paterna. Saturno infatti divorava i figli appena nati, proprio per paura d’esser da loro spodestato una volta cresciuti.

Nascosto da queste parti, il vecchio dio insegnò ai Latini l’agricoltura e rese fertile la terra, e per questo appunto fu a lungo la principale divinità del Lazio. Pure se aveva mangiato i propri figli: pazienza, si dissero i Latini, non tutto il male vien per nuocere. Se non l’avesse fatto, non avrebbe avuto bisogno di fuggire dalla vendetta di Giove e non sarebbe approdato qua.

Emanuele e Loredana vengono uccisi nella casetta di lui, in piazza della Fortuna: probabile sopravvivenza d’un antico tempio dedicato a quest’altra divinità italica prodiga di favori dietro compenso (i sacrifici umani e animali praticati per secoli). Piazzetta che infatti è rimasta vuota, le case ci son cresciute tutt’attorno, a rispettarne inconsciamente la sacralità.

Le indagini subito avviate da polizia e carabinieri scavano nelle vite degli amici di Emanuele e in quella della stessa vittima. Che è piena di guai: orfano di entrambi i genitori – o abbandonato da piccolo -, precario nel lavoro e negli amori, immaturo, ambiguo, inaffidabile, il ragazzo ha frequentazioni dubbie ed è detestato dal padre di Loredana, che tiene la figlia chiusa in casa per due mesi pur d’impedirle di frequentarlo. E anche dopo, quando la storia tra i due è ormai avviata, non perde occasione per manifestarle il proprio disappunto.

E gli amici sembrano tutti un po’ spostati. Gli agoresi, del resto, sono matti per tradizione: “Hanno gli scatti di nervi”. Colpa, dice a un certo punto Pennacchi, forse dell’aria stessa di queste zone e del tabacco che ci cresce: “Buonissimo, aromatico, profumato. Ma dava un po’ alla testa”. Perché qui, insieme al tabacco, s’è per lungo tempo coltivata anche la canapa, destinata alla tessitura. Forse un po’ se ne mescolava, nel trinciato. Oppure le piante potrebbero esser state attaccate da qualche fungo: ché infatti qui le foglie del tabacco sono d’un verde più scuro, quasi blu. Può darsi insomma che questo tabacco abbia un potenziale allucinogeno: come quello del fungo “di non so quali tribù dei Navajos”.

Quanto a Loredana, è stata lei stessa, pare, a confidare a un’amica d’aver subito violenza, da bambina, dal nonno paterno. Il quale, vero o no, una volta ha quasi ammazzato un vicino di campo a colpi di mazzetta, per una lite su questioni di confine. E in quella famiglia, dicono, sono tutti così: un po’ violenti. E lui, Proietti, forse – ma forse no – sarebbe stato un padre padrone.

La figlia Loredana, poveretta – l’unica, pare, che da qualche tempo osasse dissentire col Proietti, ribellandoglisi apertamente di fronte alla madre e al fratello più piccolo – avrebbe, infine, pagato con la vita la propria ribellione. Per altri, invece, il padre della ragazza sarebbe stato solo un po’ geloso, come molti padri. Loredana era portata, da lui e dalla madre, in palmo di mano, come il fratello del resto. Era invece Emanuele a farla soffrire, col suo passato da donnaiolo e i brutti ceffi che ogni tanto le presentava.

Così, tra sopravvivenze di antichi rituali centroitalici e chiacchiere di paese, ricordi inconciliabili e voci destrutturate, l’autore tratteggia con estremo rigore le linee di questa favola nera. Dove, alla fine, niente sarà reale e verificabile eccetto la morte di quei due ragazzi che tutto il paese sostiene d’aver visto ancora in vita (in piazza a baciarsi su una panchina, al bar davanti ai videogiochi, mano nella mano diretti verso casa) quando invece forse erano già stati uccisi.

L’unico, infatti, che alla fine verrà arrestato e condannato per quest’omicidio sosterrà fino alla fine – per tutti e tre i gradi di giudizio – che quand’è entrato in casa per cercare Emanuele ha trovato il ragazzo e Loredana immersi nel sangue ed è fuggito terrorizzato temendo che incolpassero lui: come poi è in effetti avvenuto. Il tutto, ore e ore prima che i corpi venissero scoperti dal padre e dal fratello di lei.

E del trasognato, inspiegabile vagare dei due per i luoghi del loro giovane amore – quando forse erano invece già morti – Pennacchi darà, nel finale, una spiegazione sorprendente e bellissima. Come la favola del delitto di Agora, se fosse solo una favola.

Editore: Mondadori
Anno: 2018

5.0Overall Score

Il delitto di Agora

LA REALTA' SI TINGE DI FINZIONE LETTERARIA NELLE MANI DI PENNACCHI Agora, “un paesaccio che sta sulla montagna” a un passo da Roma, domenica 25 febbraio 1996. Tra la camera da letto e il bagno ...

  • Trama
    5.0
  • Suspense
    5.0
  • Scrittura
    5.0

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