Corpi al sole

Corpi al sole

Hercule Poirot è in vacanza al Jolly Roger, un bell’albergo appena rimesso a nuovo sull’Isola del Contrabbandiere, isoletta sulla costa del Devon forzatamente collegata alla terraferma da una lingua di cemento insidiata da ogni mareggiata.

A trascorrere qualche giorno nell’elegante rifugio sull’oceano – gestito con fermezza dalla corpulenta signora Castle – ci sono un’altra decina di ospiti: tra gli altri, Arlena Stuart Marshall, ex attrice e ape regina sbarcata sull’isola assieme al marito Kenneth Marshall e alla figlia di primo letto di questi, l’undicenne Linda, e Patrick e Christine Redfern, giovane coppia in crisi coniugale.

Apertamente attratto da Arlena fin dal primo momento e insofferente al controllo della moglie, lui; a disagio in partenza su quello scoglio assolato e scosceso per via della carnagione lattea e della tendenza alle vertigini, lei, anch’essa fin da subito imbronciata e sofferente – oltre che tormentata dalla gelosia.

A condividere il volontario isolamento (tipico dei gialli della Christie da camera chiusa, sia questa un treno, un’isola o una villa di campagna sepolta dalla neve…) ci sono poi la graziosa creatrice di mode Rosamund Darnley, che in passato è stata innamorata di Marshall e soffre nel vederlo adesso così mal sposato; Stephen Lane, sacerdote fin troppo avvezzo – come lo stesso Poirot – a percepire la presenza del male sotto il sole; l’energica zitella Emily Brewster, una delle tante energiche zitelle dell’autrice; il maggiore Barry, pure lui consueto tipo d’ufficiale a riposo fatalmente propenso a imbarcarsi in estenuanti racconti sulle colonie; i coniugi Gardener, anziana coppia di sposi d’origine statunitense anch’essa abbastanza tipica (ciarliera e sputasentenze lei, invariabilmente sollecito e acquiescente lui); e infine Sir Horace Blatt, l’uomo d’affari un po’ invadente che vorrebbe essere amico di tutti ma che tutti, purtroppo, sfuggono…

Allontanatasi da sola a bordo d’un sandolino, presumibilmente diretta a un convegno amoroso con Redfern – almeno questo è ciò che tutti pensano, in questa piccola comunità isolata e satura di pettegolezzi… – un bel mattino Arlena la sfasciafamiglie viene trovata morta in una caletta al capo opposto dell’isola: qualcuno le ha messo le mani intorno al collo e ha stretto fino a soffocarla…

Comincia così Corpi al sole, giallo della Christie del ’41 da cui il regista Guy Hamilton trarrà nell’82 il lungometraggio Delitto sotto il sole, col consueto Ustinov sempre più a suo agio nei panni dell’investigatore belga e parte degli attori già presenti in Poirot sul Nilo ospitati in quest’altrettanto claustrofobico ritiro su un’isola non più tra Devon e Cornovaglia, come nel romanzo, ma nell’assolato Mediterraneo (in realtà però il film è girato sulla costa nord di Maiorca).

Jane Birkin, anche in questo caso come già in Egitto costantemente sull’orlo delle lacrime, è la bistrattata, trasandata Christine Redfern, moglie graziosa ma scialba del fascinoso Patrick (Nicholas Clay), cui solo il sorprendente finale renderà brevemente giustizia, trasformandola per qualche istante in un sofisticato esemplare di giovane signora in bianco e nero – suggestiva la lenta discesa delle scale in completo sartoriale e cappello con la piuma – prima di consegnarla, scarmigliata e furente, alla barca sballottata dalle onde che la condurrà al suo destino.

Smessi i panni mascolini della dama di compagnia, Maggie Smith impersona invece un’attraente e vivace Daphne Castle, proprietaria del Jolly Roger, modellata nel film sulla personalità della Darnley, la creatrice di mode del romanzo (che scompare) e come quest’ultima innamorata senza troppe speranze del granitico Kenneth Marshall (un baffuto, marziale Dennis Quilley).

Nel film come nel libro vittima d’un malinteso senso del dovere, infatti, il maggiore Marshall, pur riconoscendo l’infelicità del proprio matrimonio con Arlena (una Diana Rigg dal fascino maturo) e la cattiva influenza che la donna potrebbe esercitare sulla figlia Linda (un’acerba, imbronciata Emily Hone), si rifiuta anche solo di prendere in considerazione il divorzio: inducendo la Smith a ricorrere a strategie alternative a base d’imbarazzanti reminiscenze del comune passato da attrici e ballerine (“… nessuna riusciva ad alzare le gambe come Arlena… e ad allargarle, anche…”) e a una divertente sequela di manovre di disturbo, accolte con furibondo autocontrollo dalla sprezzante antagonista. Come quando, durante il cocktail di benvenuto nel salone delle feste, quest’ultima darà il via a un’apertamente ammiccante e sensuale versione di You’re the top a beneficio d’un estatico Redfern, venendone tuttavia di continuo distolta dalla frizzante padrona di casa armata di canapè e salatini, con l’inevitabile e sensibile abbassamento del gradiente erotico della situazione…

In omaggio appunto a un’ambientazione più decisamente convergente rispetto al libro, il film di Hamilton poi sopprime o trasforma alcuni dei personaggi del romanzo, con l’obbiettivo d’isolare Arlena come fulcro e catalizzatrice degl’interessi di tutti gli ospiti dell’hotel.

L’anziana zitella Emily Brewster, animata solo da una generica diffidenza nei confronti dell’ennesima sfasciafamiglie che insidia la felicità d’una coppia (ma in sostanza priva d’una vera motivazione a delinquere) nel film cambia sesso e diventa Rex Brewster, stridulo cronista di gossip: un Roddy McDowall costantemente sull’orlo d’una crisi di nervi, protagonista di una divertente serie di scambi con la scontrosa, lapidaria Linda e autore d’una scandalosa biografia di Arlena che quest’ultima naturalmente gli proibisce di dare alle stampe appena lette le prime pagine, suscitando il furibondo disappunto di lui – che tra l’altro s’è già speso l’anticipo dell’editore e se lei non cambia idea o non muore si troverà ben presto con l’acqua alla gola.

I Gardener, Odell e Myra – interpretati con mestiere dagli attempati James Mason e Sylvia Miles, perennemente immersi in battibecchi al vetriolo nella miglior tradizione della commedia nera americana alla Chi ha paura di Virginia Wolf – evolvono anch’essi, passando dalla convenzionale e un po’ anonima coppia stagionata d’oltre oceano del libro ai due serpenteschi, vibranti personaggi del film: entrambi produttori teatrali ed entrambi sotterraneamente schiumanti di rabbia perché l’improvvisa diserzione di Arlena da uno spettacolo finanziato da loro, prima, e il recente e immotivato rifiuto della donna a tornar sulle scene, poi, li sta praticamente portando alla rovina.

Il sacerdote Stephen Lane, protagonista nel romanzo d’uno scambio con Poirot a proposito del male che come recita l’Ecclesiaste “agisce ovunque sotto il sole” – ma anch’egli sostanzialmente privo di reali motivi di rancore contro Arlena a parte quelli fornitigli da un generico fanatismo religioso – scompare senza lasciar traccia insieme al maggiore Barry, ingenuo ammiratore della bellezza femminile e nulla più; mentre a Sir Horace Blatt (Colin Blakely), grossolano e ingenuo esemplare d’arricchito nel libro, viene fornito nel film un eccellente motivo di astio nei confronti della defunta sotto forma del furto o meglio dell’appropriazione indebita d’una pietra preziosa che gli apparteneva a opera di Arlena: gioiello che nel finale ricomparirà a sorpresa in un impensabile quanto evidente nascondiglio…

And the winner is…: per me è un pari merito. Il libro è bello e sorprendente e luminoso. Il film è ben interpretato (Smith e Rigg su tutti) e rende fedelmente lo spirito del romanzo pur variandone leggermente l’intreccio soprattutto nel finale, col lapsus di Redfern mentre firma il registro degli ospiti, la ricomparsa a sorpresa della pietra rubata (alla quale nel lungometraggio si deve in sostanza l’assassinio di Arlena) e la cavatina di Poirot su Giuseppe Verdi e l’ambiguo fascino dei cognomi a chiusura dello spiegone d’oltre venti minuti che conclude il tutto. Pari merito.