Dopo la nostra recensione al suo ultimo romanzo, L’arte sconosciuta del volo ed. Giunti, Antonia ha deciso d’intervistare lo scrittore: Enrico Fovanna.

Buongiorno Enrico.
Di solito per scrivere qualcosa di credibile e di emozionante si scrive sempre di qualcosa che si conosce. Quindi ti chiedo, nella tua vita c’è stato un Tobia?

Sì, Tobia sono io, o meglio, è il bambino che sono stato e che mi vive dentro, fin da quando la mia coscienza ha avuto percezione di tutto ciò che la circondasse. E ricordo una frase di mia madre, che non ha potuto studiare ma oggi legge tre libri alla settimana. Da ragazzo, quando si accorse della mia passione, mi disse: “Enrico, dammi retta, scrivi sempre e solo delle cose che conosci bene”. Aveva ragione. Certo, nel romanzo le vicissitudini della trama gialla sono di fantasia, ma molte delle esperienze di Tobia attingono a ricordi precisi delle mia infanzia, non ultimo l’innamoramento, a sei anni, per la compagna di classe, la scoperta del territorio, i giochi in campagna con il frate e gli amici, il rapporto con il matto del paese, e altro. Tobia è il bambino con cui non ho mai smesso di parlare, ma soprattutto che non ho mai smesso di ascoltare, nella speranza che non si stanchi di farmi compagnia. Lo prendo per mano come un figlio e ci faccio lunghe passeggiate, ha sempre qualcosa di nuovo da dirmi, o uno sguardo alternativo da propormi.

Ormai in Italia sembrano esserci due tipi di gialli: quelli che hanno bisogno della grande città, con luci di notte e rumore delle sirene in lontananza, e quelli in cui la location è piccola, sconosciuta ai più e sempre con una comunità che nasconde segreti. Quanto conta una location credibile in un giallo?

Credo che tutte le location siano credibili, quando ben diegnate, se no non esisterebbe la fantascienza. Ma fuor di battuta, la considerazione è vera. La grande città è cresciuta parecchio nella classifica delle ambientazioni per il romanzo. Io resto però più affezionato alla provincia e ai suoi misteri, alle piccole comunità appunto e ai loro segreti (come peraltro fa in modo magistrale Kent Haruf nel paese immaginario di Holt). Confesso, in questo senso, anche una grande passione per Durrenmatt o altri autori, che hanno privilegiato la provincia minuscola proprio per il giallo. Detto questo, io non mi sento un giallista e forse nemmeno il mio libro è un giallo classico. E’ piuttosto un libro sull’infanzia e sui suoi universi concentrici, che ha utilizzato la struttura del giallo per andare a fondo sul tema. La mia infanzia, tra infinite inquietudini, si è dipanata in provincia, tra le montagne della Val d’Ossola, quindi mi è venuto da sé scegliere delle location che la potessero raccontare, attraverso la storia e le emozioni, l’ingenuità e i dubbi di Tobia.

Nel tuo libro la parte più toccante è l’amicizia tra ragazzi e quel sentimento delicato e forte di Tobia per Carolina, ma riesci anche a parlare di partigiani e lotta di classe. Non hai avuto paura di scrivere di troppe cose e così differenti tra loro?

“La domanda è interessante e la risposta molto delicata. Provo ad articolarla al meglio. Diciamo che nella mia idea di romanzo, ci sono sempre almeno tre piani che si intersecano: uno emotivo, che attiene ai sentimenti del protagonista e dei comprimari, uno spaziale, in cui l’autore ha il compito di “far vedere” i luoghi i cui si sviluppa la trama, e infine uno temporale, in cui (quando occorre, e accade spesso) chi scrive deve tenere conto dell’epoca in cui si svolge la vicenda, senza cadere in contraddizioni. Tutto ciò comporta spesso la necessità di documentarsi al meglio sul materiale narrativo. Nel caso specifico, come dicevo sopra, sono stato molto aiutato dai ricordi e questo, credo, potrebbe avermi consentito di affrontare con maggior leggerezza alcuni temi, come appunto gli echi della seconda guerra mondiale negli anni ’60 e i grandi conflitti sindacali per gli operai di allora. Perché leggerezza? Semplicemente per l’assenza di giudizio o di valutazione morale che ho scelto. Anche se lo zio di Tobia è stato ucciso in montagna dai fascisti, la scena in cui il padre accompagna il bambino in un alpeggio per portare la croce e un mazzo di fiori di campo non è pervasa di odio, ma di puro amore. Sono stato felice, la settimana scorsa, di leggere un complimento sulla “serenità” con cui ho affrontato il tema anche su un giornale molto connotato politicamente, da cui potevo aspettarmi anche altro. Troppe cose e differenti, sì, poteva essere un rischio, ma ho provato a farle convivere, nell’ottica che la complessità sia la cifra ineluttabile, il sacro mistero delle nostre vite.

Tu scrivi anche saggi e sei un giornalista. Come cambia la tua scrittura a secondo del genere, e se cambia?

La mia esperienza nella saggistica è davvero limitata. Ho scritto una biografia per Utet e, questo sì, diversi reportage anche dall’estero, tra cui Iraq e Afghanistan, ma soprattutto Turchia e Siria, quando il tema era la questione curda, a cui ho dedicato anche il mio primo romanzo (“Il pesce elettrico”), uscito nel ’96 e rieditato sei mesi fa da Giunti. Ho una profonda passione per la geopolitica mediorientale, pur non considerandomi in alcun modo un esperto, ma solo un interessato osservatore. Quanto al giornalismo, per almeno vent’anni mi sono occupato di questioni sociali, dalla povertà alle migrazioni, dalle religioni ai conflitti metropolitani. La domanda è molto centrata: il giornalismo ha un dogma assoluto nella prosa, la sintesi. La letteratura, a mio avviso, concede molti più margini all’introspezione e al sondaggio dei sentimenti. Ma al giornalismo devo alcune lezioni importanti, poi assimilate anche nella prassi del romanzo: evitare gli avverbi e ridurre al minimo gli aggettivi, anzitutto. In una parola (come diceva Simenon): tagliare, tagliare e ancora tagliare. Il lettore si merita rispetto, quindi l’essenza, il distillato, non che giriamo per ore attorno al nostro ombelico”.

Scegli una frase. Solo una de L’Arte sconosciuta del Volo che pensi rappresenti il senso dell’intero libro.

Mica facile, ci ho messo otto anni a scriverlo. Gag a parte, visto che parlavo di sintesi e distillato, questa mi sembra indicativa: <Mentre la maestra parlava di chissà cosa, rimuginavo sul tragitto da fare in bici e sui punti di riferimento: i tralicci dell’alta tensione, tra un filare di pioppi e la linea del ruscello che scendeva dalla montagna. E poi la ferrovia, a quattro o cinquecento metri. Ci sarei andato dopo l’ultima ora di scuola, e da solo. Al pensiero, provai un po’ di paura. Poi compresi, e il tempo me lo avrebbe confermato, che tutte le strade che contano passano dalla paura>.

Grazie ad Enrico Fovanna per il tempo regalatoci.

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