Giornalista, autore televisivo e scrittore Alessandro Robecchi è una delle personalità letterarie più eclettiche e amate dai lettori italiani. I suoi libri sono letti da giovani e meno giovani e piacciono a tutti per la sua grande capacità di raccontare e descrivere e per le sue storie sempre affascinanti e nuove. Follia maggiore è il suo ultimo lavoro pubblicato con Sellerio nel 2018 dove il giallo si sposa con il romanticismo e l’indagine poliziesca con l’intuizione di una coppia davvero insolita.

Lo abbiamo intervistato e ci siamo fatti raccontare proprio tutto.

Alessandro parliamo di quello che succede nelle pagine di Follia maggiore, le chiedo è possibile che un antico amore possa rivoluzionare e scuotere la vita di un anziano tranquillo e riservato? E perché ha deciso di partire da un amore per scrivere un giallo?

Ma gli amori, antichi, o contemporanei, non servono proprio a scuotere le nostre vite? Il vecchio Serrani ha grossi rimpianti che si intrecciano con un grande rimorso, ma ha anche delle ambiguità: sarà davvero il dolore di un grande amore perduto a guidarlo? O un egoismo sfrenato? Ossessioni, capricci, passioni… Serrani è un personaggio a cui tengo molto proprio perché contiene tutto questo in modo piuttosto inestricabile, e vedo che i lettori si dividono tra chi lo legge in modo… diciamo ultraromantico, a suo agio nel melodramma, e chi ne intravvede il cinismo. Benissimo. Quanto all’amore… amore, avidità, odio, invidia, gelosia… le grandi passioni fanno fare cose strane agli umani, sono sempre le stesse da migliaia di anni, ma ogni volta sono nuove.

Nel suo romanzo colpisce moltissimo la costruzione dei personaggi: un mago, un investigatore sui generis e due poliziotti segugi. Come è riuscito a mettere insieme tutti loro e a farli piacere anche ai lettori?

La faccenda di avere due squadre di investigatori, una anomala (il Monterossi e Falcone) e una regolare (i due poliziotti Ghezzi e Carella) permette di raccontare la storia da più angolazioni. Gli sbirri, seppure con un loro particolare approccio, sono pur sempre sbirri, cercano riscontri, prove, conferme alle loro ipotesi, vogliono chiudere il caso. Il Monterossi è più attratto dalle contorsioni, dalle piegature che prendono le vite degli altri, pretende di correggere le storture, ma finisce sempre per imparare qualcosa e ha più domande che risposte. Osserva, partecipa, ma in qualche modo è lui che tiene il dossier etico-morale della faccenda. Ha un buon senso della giustizia e un buon senso critico. Ma mi piace che i romanzi siano, come si dice, corali: il punto di vista di Monterossi, un buon borghese sensibile alle ingiustizie, mi interessa come quello di Carella, sbirro secco e incazzoso, o di Ghezzi, che è più umano perché ammorbidito dall’età e dall’esperienza.

Lei è un giornalista, un autore televisivo e un appassionato di musica, quand’è che si è scoperto anche scrittore?

Scrivo praticamente da sempre, da trentacinque anni ogni giorno, per lavoro. Ho fatto i quotidiani, i settimanali, i mensili, la radio, la tivù e pure libri non di narrativa.  Ho scritto il primo romanzo della serie del Monterossi perché avevo una storia in testa e volevo scriverla. Forse ho capito dopo che c’erano anche altre motivazioni: disegnare bene le curve, trattare meglio le parole, meglio di quanto si può fare per mille motivi in un articolo di giornale, dire delle cose su di noi, i posti dove viviamo, le vite che facciamo, senza tagliarle con l’accetta come si può, e si deve, fare in un corsivo.

Da Crapanzano a Deborah Brizzi passando dal giovanissimo Bongiorni fino a Zamberletti che vi è preso a tutti di eleggere Milano come location ideale per i nuovi gialli all’italiana?

Dire che Milano è una location fa molto “milanese”, mi complimento… Scherzi a parte… non mi sono posto il problema, inizialmente: è la mia città, la conosco molto bene, ovvio che il Monterossi, con suo lavoro, il suo tenore di vita, il suo genius loci, si muova per Milano. Bene che si racconti Milano, mi fa piacere, perché la narrazione corrente e accettata (anzi, incoraggiata) di questa città è falsa e conformista. Qui abbiamo avuto Bianciardi e Scerbanenco, Gadda e Testori, Fo e Jannacci… e poi come per incanto Milano è sparita ed è comparsa una città-macchietta fatta di vetrine glamour e grattacieli, boschi verticali e modernismo efficientista, la moda, il design, l’italo-inglese come lingua madre… La narrazione ideologica del “modello Milano”, dell’esempio per il Paese e della “capitale morale” è diventata quasi obbligatoria, spero che nelle nuove narrazioni di Milano si inverta la tendenza, anzi, spero in una ribellione contro il luogo comune imperante. Credo che sia il momento di raccontarla meglio, questa città: sembrerà strano, ma il 99,99 per cento di chi vive a Milano non fa né la modella né il designer…

È notizia ormai che Carlo Monterossi diventerà, presto, anche un personaggio cinematografico. Se lo aspettava quando lo ha creato e che effetto le farà guardarlo in carne e ossa pur con le sembianze di un attore?

Ahah! Non so se sia veramente una notizia, nel senso che non c’è ancora niente di ufficiale, ma sì, ci si sta pensando… Non so davvero rispondere a questa domanda… può essere che sia più difficile scrivere avendo in mente una faccia… ma un personaggio non è solo una faccia, è un carattere, un mood… e poi io penso che il romanzo e il cinema siano mezzi diversi, che non bisogna pensare di fare una fotocopia cinematografica di quello che si scrive. Un buon film può aggiungere, può ridisegnare, credo che se è buono il romanzo da cui si parte potrà essere buono anche il film… per questo bisogna scrivere buoni romanzi e non sceneggiature, quelle sono un’altra cosa e possono essere buonissime anche loro.

Lei è un autore e uno scrittore ma quale è la canzone che le sarebbe piaciuto scrivere?

Che razza di domanda! Ma non fuggirò e direi Don’t think twice, it’s all right di Bob Dylan. E’ una canzone di abbandono astioso, un addio carico di risentimento e sarcasmo, ma è una canzone che lui canta da cinquant’anni, che ha preso via via diverse curvature ed ora ha più la forma del rimpianto e di una rabbia ammorbidita, come di quando non ti ricordi più perché eri arrabbiato ed è solo una parte della tua vita. E’ una canzone importante nella poetica dylaniana e ne esistono mille versioni, acustica, elettrica, country, persino reggae… Dylan l’ha trasformata sempre, stravolta e rimasticata, ma un addio è sempre un addio… sì, mi sarebbe piaciuto scrivere quella, ma ovvio che non sarei stato capace.

Grazie ad Alessandro Robecchi.