Il talento di Mr. Ripley

Il talento di Mr. Ripley

New York, anni ’50. Il giovane e insicuro Tom Ripley – Matt Damon nel film Il talento di Mr. Ripley tratto nel ’99 dal regista Anthony Minghella dall’omonimo romanzo di Patricia Highsmith – viene contattato dal padre di Richard Herbert Greenleaf, per gli amici Dickie (Jude Law), multimilionario erede dei cantieri Greenleaf che da tempo s’è trasferito in Italia e non sembra intenzionato a tornare in patria.

Per cercar di convincere il figlio ad abbandonare l’esilio dorato rappresentato da Mongibello,  minuscolo borgo sulla costiera amalfitana (che non esiste, è un’invenzione della Highsmith) e dalle premure materne dell’unica altra giovane americana del posto, la candida Marge Sherwood (Gwyneth Paltrow), i genitori di Dickie si offrono di pagare a Tom il viaggio in Italia.

Tom, che ha un passato tormentato e a New York trascina un’esistenza desolante fatta d’impieghi precari e piccole truffe, accetta, ma una volta sul posto dimentica lo scopo della missione affidatagli forse un po’ imprudentemente dal signor Greenleaf e decide di cercar di conquistarsi l’amicizia di Dickie e di vivere a sua volta in Italia. Ma le cose, dopo un breve idillio iniziale – determinato soprattutto dalla volontà del giovane Greenleaf di farsi gioco del padre, fingendo assieme a Tom che la missione di quest’ultimo possa andare a buon fine – evolvono tragicamente.

Arrogante e viziato, Dickie si stanca ben presto della presenza di Ripley – anche perché ne intuisce le tendenze omosessuali, tratto, questo, che nel film appare più esplicito rispetto al libro, dove a insinuare il sospetto dell’attrazione omoerotica di Tom per Dickie è soprattutto una gelosa Marge – e cerca d’indurlo ad andarsene. Durante un ultimo viaggio insieme a Sanremo, i due fanno un giro in barca e Tom uccide l’amico, assumendone l’identità e dando il via a un’escalation vorticosa di delitti e mutamenti di personalità… Nel trasformare il romanzo della Highsmith in film (operazione già tentata nel ’60 dal René Clément di Delitto in pieno sole, col giovane Delon nei panni di Ripley) Minghella introduce numerose differenze di vario spessore.

Leggermente diverso l’abbrivio: deliberatamente braccato e infine raggiunto nel libro, col padre di Dickie che lo segue in un bar e gli offre da bere all’unico scopo di proporgli la missione di recupero del figlio (in Italia ormai da troppo tempo), il Tom Ripley del film accompagna invece al piano l’esibizione canora di un’amica durante un ricevimento a New York e viene notato appunto dalla coppia Greenleaf, il padre anziano e forte e la madre invalida di Dickie, che ne approfittano per invitarlo a cena e proporgli il viaggio nel paesino italiano dove s’è stabilito il figlio.

Involontariamente mistificatorio in entrambi i casi, il Ripley romanzesco viene raccomandato ai Greenleaf da una coppia d’amici comuni, che ne ha grande stima e accredita l’idea che il giovane abbia conosciuto Dickie ai tempi della scuola (inesatto, ma Tom deciderà d’alimentare l’equivoco per conquistarsi l’ulteriore fiducia dei genitori del ragazzo); mentre nel film durante il ricevimento Tom indossa una giacca della stessa università frequentata dal giovane Greenleaf che gli è stata prestata da un amico, traendo in errore i due coniugi e scegliendo poi di non disingannarli.

Cambia poi Marge, che abbandona l’aspetto acqua e sapone e le forme generose della protagonista del romanzo, la ragazza casa dolce casa dall’incoercibile vocazione allo sferruzzamento di calzini e dalle vaghe ambizioni letterarie: caratterizzata, nell’ottica d’uno sprezzante Tom, essenzialmente da “un sedere… che sbocciava voluminoso” e da una generale tendenza a un’avvilente sciatteria. Indimenticabili i reggiseni penduli e il ricorrente costume da bagno color pomodoro sparsi qua e là per la casa di Mongibello, così come il ciuffo scompigliato di capelli biondo grano inariditi dal sole del Mediterraneo e gli imbarazzanti tentativi di festeggiare un vero Natale americano nel piccolo borgo costiero, con tanto di tacchino farcito e pudding di prugne serviti a un’attonita coppia di amici del posto.

Passando al profilo da volpe giovane e alla silhouette filiforme d’una Paltrow invariabilmente elegante – spolverino d’ocelot e capelli raccolti a Venezia, cappa blu notte a teatro, camicia bianca e coda di cavallo alla Hepburn per le mattinate in spiaggia… – e decisamente meno ottusa, la giovane americana del film, oltre a esser comunque abbastanza attraente da poter avere una storia d’amore (per quanto precaria) con l’esigente, viziato Greenleaf, si rivelerà sufficientemente acuta da sospettare Tom dell’omicidio di Dickie fin quasi da subito, in netto e definitivo contrasto con la confusa e manipolabile Marge romanzesca.

Nel libro invece Marge è innamorata di Dickie ma lui non lo è affatto di lei e sembra anzi pronto a rinunciare alla compagnia della ragazza praticamente a vantaggio d’ogni nuovo arrivato. Fedele al libro anima e corpo è invece il personaggio di Freddie Miles, l’amico americano di Dickie dai modi arroganti e dal fisico massiccio interpretato col consueto mestiere da un rossocrinito Philip Seymour Hoffman: che un attimo prima di capire tutto viene spacciato dal Ripley di Minghella a colpi di soprammobile in marmo a forma d’antico busto romano, in omaggio alla borghese passione per le riproduzioni dell’arte classica del protagonista; mentre nel libro Tom ricorre più prosaicamente a un pesante posacenere di cristallo che si ritrova per caso a portata di mano.

Il film introduce poi in modo non troppo motivato un paio di personaggi assenti nel romanzo: la ragazza del paese con cui Dickie ha avuto una storia clandestina e che, una volta scoperto d’essere incinta, si suicida gettandosi in mare e riemergendo cadavere durante i festeggiamenti per la santa patrona (una Stefania Rocca piuttosto dimenticabile) e i fratelli di lei, interpretati da Rosario e Beppe Fiorello, abbastanza inerti entrambi benché il primo (Fausto nel romanzo) sia protagonista, assieme a Jude Law, d’un breve e riuscito omaggio musicale al Carosone di Tu vuo’ fa’ l’americano.

Assente nel libro è anche la giovane ereditiera americana Meredith Logue, che Tom incontra sulla nave durante il viaggio alla volta dell’Italia e con la quale per la prima volta e in modo piuttosto immotivato – e dunque piuttosto perturbante – si spaccia per Dickie Greenleaf: una straordinaria Cate Blanchett, ancora lontana dallo spessore di Blue Jasmine ma già perfetta nel rendere le tragicomiche, dissonanti sfumature della povera ragazza ricca.

Sarà appunto quest’iniziale e quasi giocoso scambio d’identità che, nel finale punitivo adottato dal regista in contrasto con quello assolutorio della Highsmith, condannerà il protagonista a un esito tragico, obbligandolo a sbarazzarsi dell’unica persona con cui abbia stabilito un legame, l’americano a Venezia Peter Smith-Kingsley (Jack Davenport). Personaggio appena accennato nel romanzo, dove compare quasi di sfuggita e dove Tom, fatta eccezione per l’amica americana Cleo, pittrice dilettante come Dickie, non nutre simpatia per nessuno e non ha legami di sorta eccetto l’effimera amicizia col giovane Paul Hubbard, che lo saluta alla partenza per l’Italia e non compare più per tutto il libro.

Jude Law, uno Jude Law sfrontato, sogghignante, è Dickie, il multimilionario erede dei cantieri Greenleaf in fuga da un destino già scritto e deciso a costruirsene uno tutto diverso e tutto suo grazie all’esilio dorato nel paesino italiano e alle proprie ambizioni: d’ambito leggermente diverso nel film, dove Dickie suona il sassofono – con risultati non memorabili – rispetto al libro, con lui che invece dipinge, anche in questo caso piuttosto mediocremente.

Un tratto, questo della vocazione artistica ma dello scarso talento nel realizzarla, che accomuna entrambi i giovani Greenleaf come una sorta di scotto per tutti gli altri doni (bellezza, fascino, ricchezza, gioventù) elargiti invece a piene mani da una sorte cieca. E Matt Damon è Tom, un Tom Ripley più tormentato e distonico rispetto al libro, efficace nell’esprimere l’angoscia a tratti soffocante per ciò che è fatto e non si può disfare: angoscia da cui il Ripley del romanzo sembra sostanzialmente immune, l’ansia che periodicamente lo assale apparendo motivata unicamente dal terrore di venir scoperto o di dover controvoglia riassumere la propria scialba identità.

Significativa, in questo senso, la scena finale del film, con Tom rannicchiato sul letto e dolorosamente rassegnato all’idea di dover restar chiuso per sempre nello stanzino buio della propria coscienza, tra le pareti a specchio d’una personalità patologicamente multiforme; mentre nel libro Ripley – che tra le altre cose è anche riuscito a farsi trasferire l’eredità di Dickie con la benedizione dei Greenleaf – salpa alla volta delle isole greche e di un’esistenza finalmente dorata al punto giusto senza un rimorso al mondo: “Donde, donde? Diceva intanto l’autista cercando vanamente di parlare italiano. In albergo, per favore, rispose Tom. Il migliore, il migliore, il migliore!”.

…And the winner is: il libro segna l’esordio di Tom Ripley, destinato a ritornare da protagonista in diversi romanzi della Highsmith, ed è uno dei capolavori dell’autrice (Premio Edgar Allan Poe nel ’56), contribuendo a meritarle l’appellativo di poetessa dell’inquietudine (Graham Greene). Il film si avvale d’un cast notevole e di alcune interpretazioni eccellenti, Paltrow, Damon, Law “bravissimi tutti e tre” (T. Kezich, Il Corriere della Sera) ma degenera troppo spesso in una sorta di cartolina a fosche tinte “con tutti gli ingredienti indispensabili alla nostalgia della dolce vita allineati ad usum del pubblico Usa” (I. Bignardi, la Repubblica). Inoltre il finale mutato sembra contraddire lo spirito del romanzo. Vince il libro.